Alla ricerca dell’arca perduta

Alla ricerca dell’arca perduta. Non vi preoccupate, non voglio ripercorrere la strada di Indiana Jones giacche l’arca di cui ho intenzione di parlarvi non è quella dell’Alleanza, bensì il battello di Noè. Essa è davvero esistita? Ha navigato per 40 giorni? E dove è approdata? Ancora è possibile ritrovarne le vestigia? Le fonti a nostra disposizione, ossia Genesi e Gilgamesh ci forniscono descrizioni generali, ma nulla su cui impostare una seria ricerca scientifica. Leggiamo nelle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio: “Al di sopra di Minia, in Armenia, vi è una montagna chiamata Baris” – il nostro Ararat – “dove, si racconta, trovarono asilo un gran numero di coloro che scamparono al Diluvio. Si dice anche che un tale, navigando su un battello, sia approdato in cima a questo monte e che i relitti dell’imbarcazione vi si siano a lungo conservati” (I, 3,6).

Nella biblioteca del monastero sul Sinai è quindi custodito un manoscritto arabo che registra il metodo di ripartizione degli ambienti: nella stiva tutto il bestiame e nel secondo ponte i volatili; al piano superiore i locali per i maschi, separati da quelli femminili per mezzo del cadavere di Adamo. Fin qui tutto bene, se non fosse che la localizzazione sull’Ararat ha l’opposizione della tradizione islamica e siriana, le quali la individuano sul monte Giudi, posta assai più a meridione e da cui si domina la pianura mesopotamica. In effetti, l’arca è stata periodicamente cercata, trovata, perduta, cercata di nuovo: è come un’amante che continua ad attrarre gli uomini, almeno quanti sono incapaci di distinguere tra verità e fantasia. Accade un po’ ciò che concerne gli UFO: ad avvistamenti reali fanno seguito giustificazioni con i palloni sonda, i fotomontaggi, i sofisticati congegni militari. Poi di colpo, un evento inspiegabile: e giù teorie, scoop giornalistici, libri pseudo-scientifici.

Nel 1864, sul n. 281 del periodico francese L’univers illustre del 1° settembre, si legge che “fino ai primi decenni del sec. XIX nessuno ha osato scalare la sacra montagna a causa del pregiudizio quasi dogmatico di cui essa godeva presso gli armeni. Questo popolo era fermamente persuaso infatti che l’arca di Noè fosse rimasta su quella vetta e che Dio stesso, per preservarla dalla distruzione, avesse sancito il divieto di accostarvisi“.

Tale convinzione si originava da una leggenda medievale: un monaco parente di san Gregorio avrebbe manifestato l’interesse devozionale a raggiungere la cima dell’Ararat, ma sarebbe stato stoppato da Dio. Durante la via del ritorno, colto da un improvviso sonno plumbeo, si fermò più volte a riposare: il Signore ebbe compassione di lui e gli inviò un angelo a confermargli l’inviolabilità della montagna e fargli dono di un frammento ligneo del biblico battello. E conclude il giornale francese: “questo frammento è tuttora conservato come la reliquia più preziosa nella cattedrale del monastero di Echmiadzin, ove ha sede il patriarcato armeno”.

Non ho dubbi sulla circostanza che il monaco dovette desistere dal tentare la scalata, ma non tanto per l’intervento divino, quanto perche l’Ararat si eleva per ben 5.200 mt. Si pensi che il primo uomo a conquistarne la vetta fu nel 1829 il francese G.F. Parrot, già noto per le sue escursioni sul Monte Rosa e sul Mont Perdu, una vetta dei Pirenei. Dovettero quindi trascorrere 21 anni prima che la sacra montagna venisse nuovamente vinta, questa volta a opera della spedizione topografica del colonnello russo Khoelzko.

La storia che voglio narrarvi non si ferma qui, ma lo spazio a mia disposizione non è infinito. Se questo viaggio vi avvince avremo presto il piacere di proseguirlo. Fatemi sapere.

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