Octopuss: il loro giro del mondo fa tappa a “Miami Airport”. L’intervista

Miami Airport è il nuovo singolo degli Octopuss, in uscita il 21 maggio per Freecom/ZdB. Il trio italiano, dopo circa un migliaio di date tenute in 3 continenti, Europa, Nord America ed Asia, condividendo il palco con star internazionali come Deep Purple e Scorpions e dopo essere diventati una delle band europee più importanti in territorio cinese, sceglie proprio il singolo “Miami Airport” per tornare dove tutto è cominciato.
Abbiamo intervistato la band per saperne di più.

  1. Avete suonato in diversi posti del mondo, dalla Cina, passando per l’Europa, fino agli Stati Uniti d’America. Dove avete provato le emozioni più grandi?

Si, abbiamo davvero girato molto, ma questo era il nostro sogno già dalle stesure delle prime canzoni. Volevamo portare la nostra visione musicale anche fuori dai confini italiani, ovunque fosse possibile… fino anche in capo al mondo, per quello abbiamo scelto sin dal primo momento di scrivere i testi in lingua inglese. Sinceramente l’emozione di salire sul palco è sempre una cosa che adoriamo, sia che l’esibizione sia in Italia, sia che sia all’estero: forse all’estero ci divertiamo un pò di più, perché stando lontano da casa il concetto di essere in tour diventa pieno e totalizzante.
Dopo aver cominciato facendoci le ossa con una lunga serie di concerti in tutta Italia, abbiamo deciso innanzitutto di vedere i luoghi e suonare sui palchi dove il rock era nato e veniva respirato ogni giorno, volevamo  “misurarci” con le band locali in America ed in Inghilterra! Così, abbiamo deciso di partire per un primo tour negli States, interamente organizzato con le nostre forze; appena tornati dagli U.S.A., i rumors sulla band hanno raggiunto anche Londra, e siamo stati invitati a suonare in alcuni club della storica città inglese. La soddisfazione per il lavoro svolto cresceva, e maturava la confidenza nei nostri mezzi: sentirsi in giro per il mondo a condividere spesso il palco con band americane e inglesi ci faceva “crescere” esponenzialmente sotto tutti i punti di vista.
Tornati negli Stati Uniti, avendo già avuto occasione di suonare sia nella East Coast che nella West Coast, due mondi e “scene” molto diverse tra loro, abbiamo scelto trattenerci e battere a tappeto a suon di live la California, esibendoci spesso a Los Angeles e nei suoi vasti dintorni. “Cat Club” e “Viper Room” sono solo due dei tanti locali toccati, ma certo dal nome più altisonante.
Ecco, ogni concerto in California ti lascia addosso un’adrenalina particolare, perché sai che stai performando nella terra dei top players, sugli stessi palchi che hanno calcato i tuoi idoli prima di te. E’ una sensazione talmente forte che a volte può sorprenderti anche in un bar, in un club, in un motel del Sunset Boulevard, e perfino in un negozio di chitarre, quando riconosci un dettaglio che magari era presente in un vecchio poster che avevi da adolescente appeso alla parete, o sulla copertina di un vinile che avevi consumato a furia di ascolti. In America, anche quando dividi il palco con band di teenager – che possono suonare più o meno bene –  ti accorgi subito che hanno una determinazione incredibile sul palco e hanno ben chiaro  il concetto di come si costruisce uno show”.
In Cina, le emozioni non sono state di certo da meno. Innanzitutto si tratta di un salto culturale ben superiore: interfacciarci con l’estremo Oriente, soprattutto all’inizio, fu cosa non da poco. Le barriere culturali e linguistiche, soprattutto all’inizio, sembravano essere insormontabili: eravamo ormai ferrati su cultura e modus operandi degli addetti ai lavori e dei fan europei e statunitensi, ma, senza che nessuno di noi tre parlasse una parola di cinese, abbiamo dovuto preparare con dedizione doppia i primi tour in Cina, accettando di buon grado la nuova e difficile sfida in Oriente ma senza sapere davvero cosa aspettarci. Ma superate le difficoltà e gli ostacoli iniziali abbiamo ricevuto una risposta incredibile dal pubblico cinese, e, tour dopo tour, abbiamo conseguito il primato di essere  diventati la band europea che ha tenuto più concerti in Cina negli ultimi 5 anni, avendo concluso ben dieci tour su suolo cinese, e abbiamo suonato in tutte le livehouse più famose del Paese e sopratutto abbiamo avuto occasione di esibirci in più edizioni dei festival più grandi e prestigiosi del Sol Levante, davanti a centinaia di migliaia di persone. E questa è un’esperienza che lascia addosso emozioni impagabili, anche perché si ha la sensazione di portare la propria musica lontano, molto lontano, ed è doppiamente gratificante vedere che viene così apprezzato il proprio lavoro.

2. Come state vivendo questa situazione così complicata, voi che siete abituati a calcare i palchi di tutto il mondo?

Per tutti i musicisti, e non solo, di tutto il mondo è stato un periodo molto difficile. Si è passati da un’attività live molto intensa, dal girare di continuo ad un’immobilità forzata, e ancora più grave, senza prospettive certe sulle tempistiche di ripresa.
Abbiamo chiaramente molti amici che fanno questo mestiere, e alcuni di questi sono caduti letteralmente in depressione. Altri sono sul lastrico. Lascio ad altri contesti le dissertazioni politiche ed interventiste a difesa della categoria, ma sicuramente l’ultimo anno e mezzo è stato per noi pesantissimo: quando l’epidemia è iniziata in Cina, hanno cominciato ad annullare ogni tipo di evento e manifestazione in tutto il Paese. Poi il virus è arrivato anche da noi, e ci siamo trovati impreparati e nella medesima situazione che necessitava una chiusura totale. Da settembre in Cina c’è stata, come tutti sanno, una lenta ripresa e riapertura, ed  ora sono ormai un pò di mesi che tutto è ripreso là, compresi gli eventi di musica dal vivo, ma noi comunque non possiamo ancora parteciparvi: i numeri europei sono ancora troppo alti, e non sono ancora ammesse le performance di artisti internazionali in Cina per il momento.
Abbiamo, comunque, tentato di  approfittare dell’immobilità per lavorare su nuovo materiale e abbiamo tenuto duro, ma ora non vediamo l’ora che tutto riapra e si possa tornare a suonare dal vivo, ovunque, che è la cosa che amiamo e ci manca di più.

3. Quali differenze percepite tra il mondo del live italiano e quello internazionale?

L’Italia non è messa così male dal punto di vista della situazione live. Sicuramente in molti Paesi esteri sono più organizzati di noi, e credo dedichino più risorse al mondo del live, sia private che attraverso fondi statali. Forse l’interesse per la musica dal vivo in Italia è anche un pò calato, ma non riesco a dire se sia causa o conseguenza del fatto che molti locali per concerti abbiano chiuso negli ultimi anni. Riteniamo che sia una grande perdita, ed è una cosa molto triste, anche perché a lungo andare così si ucciderà l’innovazione e quel substrato underground dal quale scaturiscono sempre contaminazioni interessanti e le più belle novità.
Sul mondo del live statunitense ed anglosassone le informazioni sono alla portata di tutti, e sappiamo essere realtà molto vive, e che vengono prese molto seriamente anche come fonte di indotto e cash flow.
E’ interessante, invece, dire che in Cina abbiamo trovato una situazione live inaspettatamente ben organizzata, con una molteplicità disarmante di livehouse rispetto all’Italia, mediamente di buone dimensioni e ben attrezzate, e abbiamo da subito pensato che probabilmente essendo la loro economia in forte ascesa, anche la musica e la cultura risentono del medesimo circolo virtuoso: i locali per concerti non chiudono, ma se ne aprono di nuovi, e i festival musicali pullulano ed ogni anno sembrano essere più grandi ed organizzati dell’anno precedente.
Il pubblico cinese ha rappresentato, poi, una delle sorprese più grandi. Alla partenza per il primo tour, non sapevamo bene cosa aspettarci, né tanto meno come avremmo potuto coinvolgere e “farci capire”  da un audience che sulla carta era descritto come “chiuso”, molto poco anglofono, e più avvezzo alla musica tradizionale cinese che al rock – e meno che meno al funk – tendenzialmente poco empatico e poco danzereccio. L’audience cinese è risultato invece fornito contro ogni luogo comune di una buona cultura musicale e più disposto del previsto a “perdere la testa” e lasciarsi trasportare dalla musica che gli proponevamo. Individui fantastici, calmi e pacifici, molto accoglienti e per nulla xenofobi, permeati dalla propria cultura millenaria e molto attenti alle tradizioni, una volta sotto al palco si trasformano in un vulcano in eruzione, che si tratti di un concerto in un club o di un maxi festival:  ognuno a suo modo è preso da un’euforia che potrebbe ricordare quello che ci accadeva da piccoli quando suonava la campanella per annunciare l’ora di ricreazione. Sembrano aver conservato un ascolto fresco e molto empatico: ecco credo che in Italia questa freschezza e gioia immediate nell’ascolto si sia un pò perso, ma va più di moda criticare ogni cosa raggiunga una certa soglia di notorietà. Forse siamo a volte un pò troppo saccenti, e diventati un pò meno capaci di lasciarci andare completamente alla musica godendone senza troppe riserve.

4. Sappiamo che l’ultimo album è stato registrato agli Shangri-La Studios, uno degli studi di registrazione più famosi al mondo. Ci raccontate di questa esperienza?

Un’esperienza fantastica!
Grazie ai contatti e alla stima nata nei confronti della band dopo i tour che abbiamo tenuto negli States, siamo tornati a Los Angeles per le registrazioni del nuovo album “A Nut For A Jar Of Tuna”, che, dopo varie vicissitudini, sono avvenute ai leggendari Shangri-La Studios di Malibu.
Si tratta di uno degli studi di registrazione più famosi al mondo: se esiste una religione chiamata “Rock’n Roll”, ecco, quegli studi ne rappresentano la cattedrale. Sono una pietra miliare della storia del Rock, ed entrarvi, per noi, è stata quasi un’esperienza mistica. Si tratta di una tenuta sulle colline di Malibu, che è stata riconvertita a recording studio su precise indicazioni di Bob Dylan & “The Band” nel 1970. Martin Scorsese ci ha ambientato il suo celebre documentario“The Last Waltz”, e ci hanno registrato artisti del calibro di Eric Clapton (che vi registrò il disco “No reason to cry” definendolo – nella sua autobiografia – come un “luogo magico e di intensa creatività”), Keith Richards, Crosby, Stills & Nash, Mark Knopfler, Black Sabbath, Carlos Santana, ZZ Top, Metallica, U2, Red Hot Chili Peppers, Muse, Lady Gaga, Eminem, Ed Sheeran, Adele … e anche Jovanotti l’ultimo album con la produzione di Rick Rubin.
Pensare che questi nomi hanno varcato la soglia del medesimo studio in cui stai registrando ti mette addosso pressione, e ti sorprendi ad ammirare ogni minimo dettaglio dello studio, delle chitarre e amplificatori in esso contenuti, persino del biliardo (che ricordavamo chiaramente immortalato sul retro di copertina del disco di Clapton): è una sensazione importante, e siamo riusciti a convertire la pressione, caricandoci ancora di più al fine di registrare un super disco.
Abbiamo cominciato le sessioni di registrazione dell’album sotto la direzione del producer britannico multiplatino Gary Miller, con la collaborazione di Beej Chaney (cantante e chitarrista dei Suburbs) e di Eric Lynn (sound engineer tra gli altri dell’album The Marshall Mathers LP 2 di Eminem,“St. Anger” dei Metallica, “Don’t” di Ed Sheeran e “La Futura” degli ZZ Top,  …); le riprese  sono avvenute quasi esclusivamente “live”, ovvero suonando, come dal vivo, insieme nella stessa stanza (la mastodontica sala A degli Shangri-La Studios) proprio per mantenere e catturare l’energia che la band sprigiona durante i concerti, ad eccezione di qualche overdub e delle riprese vocali.
Un aneddoto divertente: un giorno, durante una pausa dalle riprese, eravamo in riunione e stavamo parlando di un arrangiamento con Beej Chaney (cantante e chitarrista dei Suburbs), che era uno dei supervisori delle nostre sessioni di registrazione – insieme al produttore Gary Miller ed Eric Lynn – quando d’un tratto si spalanca la porta che da sul giardino privato degli Studios ed irrompe nella stanza un innervosito David Crosby, sgridandoci perché avevamo parcheggiato male l’auto nel vialetto. Eravamo increduli: trovarsi a tu per tu con una delle icone della storia del rock americano, uno che calcò il palco di Woodstock nel ’69, lì davanti a noi in carne ed ossa, che per di più stava gridandoci addosso di spostare la macchina, ci lasciò completamente senza parole. Ripensandoci poi ne abbiamo riso per giorni…

5. Per finire, ci raccontate dell’esperienza di condividere il palco con band come i Deep Purple o gli Scorpions?

Abbiamo aperto i Deep Purple in Italia, allo Stadio Mirabello di Reggio Emilia, e gli Scorpions in occasione di una tappa del loro tour mondiale allo ChangJiang International Music Festival in Cina.
Che dire? Un’esperienza magnifica, ambedue le volte. La situazione tecnica è meravigliosa, palco gigantesco, luci, led, maxischemi e difronte a te migliaia e migliaia di persone: cosa desiderare di più?
Suonare sul palco subito prima di icone rock mondiali di questo calibro per un musicista è sempre una cosa impagabile, ma credo comunque che l’esperienza in Cina con gli Scorpions, a prescindere dal fatto che il pubblico era cinque volte tanto rispetto a quello presente allo Stadio Mirabello, ci abbia lasciato addosso un’adrenalina ed una soddisfazione superiore. A causa di una coincidenza aerea persa siamo arrivati praticamente diretti al linecheck dall’aeroporto, non dormivamo praticamente da due giorni, eravamo esausti: saliti sul palco, vedere quella fiumana di gente urlante difronte a noi ha azzerato ogni stanchezza. Abbiamo percepito in quel frangente che è cosa molto diversa in sostanza essere la band “locale” che apre la star internazionale che fa tappa nel proprio Paese: fu così con i Deep Purple. Noi italiani aprivamo il loro show in Italia. Con gli Scorpions, invece, si trattava di un festival internazionale, ed eravamo anche noi una band straniera, posta subito prima di un’altra band straniera, e venivamo percepiti in un modo completamente diverso sia dai media locali, che dal pubblico, e perfino dai tecnici sul palco.

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