La tradizione del buon gusto dei romani – seconda parte

La tradizione del buon gusto dei romani – seconda parte – Una leggenda collega il vino ed il mese di aprile alla nascita di Roma, tradizionalmente festeggiata al 21 di quel mese. Si vuole che Enea, mitico progenitore dei romani, consapevole dell’amore di Zeus e degli altri dei per il vino, gli offrisse in sacrificio il vino nuovo, ottenendo il favore divino contro Turno, che fu così sconfitto, consentendo ad Enea ed ai suoi discendenti di occupare il territorio, nel quale sarebbe poi stata fondata l’Urbe.

Altri, notando che la nascita della civiltà greca coincide con l’età del bronzo, e che bronzo in latino si dice eneus, e che eneus è etimologicamente collegato sia a nuovo sia a vino, hanno elaborato interessanti relazioni tra la nascita della civiltà romana e “Enea, alias l’Uomo Bronzeo o Nuovo”, per alcuni, progenitore, oltre che di Ascanio ed Eurilone, anche di Romolo e Remo. Altri collegamenti suggestivi sono stati elaborati tra Samotracia (tappa di Enea nel suo viaggio verso Roma) ed i miti religiosi, da lì provenienti, reperibili nelle antiche tradizioni romane o fra Enea e l’Ancile (lo scudo di Bronzo donato da Giove a Numa Pompilio).

Quindi solo per amore verso la mia città e, senza alcuna pretesa di scientificità e completezza, cercherò di curiosare sull’argomento, partendo dalle leggende che vogliono l’Urbe fondata da pastori ed agricoltori che dalle colline circostanti scesero verso il Tevere, fermandosi al suo guado naturale presso l’isola Tiberina, chiamato rumon, che era, ovviamente, uno dei passaggi obbligati tra il centro-nord etrusco ed il sud magno-greco, iniziando così, fin dalle origini, con il contatto e la contaminazione con i viaggiatori del tempo, ad apprendere le loro abitudini, che sposarono, evidentemente apprezzandole, gettando così le basi di quell’apertura verso gli usi altrui, che i romani conservarono anche dopo.

Questa gente crebbe e si trasformò rapidamente aggregando le persone che giungevano presso di loro, attratte dalla nuova realtà socio-economica che andava creandosi sia per lo sviluppo dei commerci sia per la grande disponibilità di acqua potabile attinta dal Tevere, fattore indispensabile ed imprescindibile per lo sviluppo.

I primi romani vivevano in modo semplice, conservando le abitudini alimentari agro-pastorali che erano loro, abitudini veramente frugali (da fruges, l’insieme dei cereali e legumi) tali da giustificare il noto proverbio “ esse oportet ut vivas non vivere ut edas “, che noi, sia in considerazione dei tempi in cui viviamo sia dell’abbondanza della quale beneficiamo, come nati nella parte ricca del pianeta, possiamo riproporre con un po’ d’ipocrisia, “ non si vive per mangiare tanto ma per mangiare bene “.

Una pappa semi liquida, la polta, cotta in acqua e sale, con fave o lenticchie, miglio, orzo, farro, frumento, cavoli, cipolle, eventualmente con aggiunta di latte o formaggio, raramente arricchita con pezzettini di carne, costituiva il piatto base del popolo, da consumarsi con la focaccia di farina e le uova.

Era una specie di polenta, anche se Catone nel  “ De Agricoltura “ riserva il termine polenta solo alla pappa fatta con l’orzo.

In alcune occasioni si consumavano le libae (da cui libagioni), una sorta di focacce di farina.

I più ricchi, logicamente, disponevano di scelte più ampie, dalle quali però mancava o era scarsamente presente il pesce, introdotto nell’alimentazione giornaliera più tardi, dopo l’approccio al mare.

Plauto e Varrone ricordano un forum piscatorium (mercato del pesce) solo a partire dal terzo secolo d. C. e menzionano l’allec, ma non il garum, che diventerà il condimento principe della cucina romana  e che allora era probabilmente sconosciuto.

Il garum proveniva dalla Grecia ove era conosciuto come garon ed era un condimento ricavato dal pesce, messo a macerare in una sorta di salamoia arricchita con aceto, aromi e spezie ed infine filtrata. Un’idea del sapore del garum può essere ricavata dalla salsa worchester, molto probabilmente eredità inglese di abitudini dei conquistatori romani.

Come già detto, il pesce entra tardi nelle abitudini dei romani, ex pastori e contadini, probabilmente anche per le difficoltà di conservazione e di trasporto e non si ha notizia, neppure successiva, di pesce affumicato, nonostante questa pratica fosse nota in Europa fin dalla preistoria, come dimostrano le pitture rupestri delle grotte di Lascaux in Francia.

Molte furono le varietà consumate, basti vedere tra i mosaici del Museo Nazionale Romano o a Pompei, Aquileia ecc. Fra queste possiamo citare, come più diffuse, lo storione, la murena (da Licinio Murena che lo aveva fatto conoscere), il grongo, il tonno, l’orata, il muggine, la triglia, la sogliola, lo sgombro, il lupo di mare, il luccio ed il ghiozzo.

La prossima puntata tra qualche giorno

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