La morte nera

La morte nera – Non vi preoccupate, lungi dalle mie intenzioni illustrarvi il funzionamento del micidiale congegno di distruzione cosmica di cui nel film Guerre stellari. Vi ho in precedenza parlato della peste di Milano e ora desidero intrattenervi su un altro ameno episodio del genere, quella di Firenze del 1348.

Aprendo il Decamerone, il Boccaccio riferisce che tutto il capoluogo toscano era trasformato in un sepolcro, in un susseguirsi di fosse comuni ove giacevano centinaia di corpi inanimati.

Per parte sua, il cronista Marchionne di Coppo Stefani scrive: “Nell’anno del Signore 1348 fu nella città di Firenze e nel contado grandissima pistilenza e di tal furore e tempesta che nella casa ove s’appigliava chiunque servì a niuno malato e tutti quelli che lo servivano morìano del medesmo male e quasi niuno passava lo quarto girono e non valea medico né medicina”.

Simile flagello, denominato la “morte nera” a causa della comparsa sull’epidermide di macchie brunastre, venne provocato – quale causa mediata – dalle frequenti carestie che si abbatterono su Firenze e zone limitrofe a partire dal 1340, portando alla tomba quasi 45.000 cittadini. Il citato cronista è preciso nel descriverne i sintomi: improvvisa e violenta febbre, lividi, bubboni intrisi di materia scura, forte salivazione mischiata a grumi violacei di sangue.

Gran parte della coscienza popolare attribuì l’evento alla giustizia divina, come riportato da Matteo Villani, che anticipò il giudizio universale per tutti gli abitanti rei di gravi crimini contro l’etica e i costumi; ma non mancò chi diede la colpa a nefaste influenze astrali o a sfavorevoli condizioni climatiche che avrebbero corrotto l’atmosfera.

Come al solito, né gli astri né Dio furono responsabili della pestilenza – che, nell’intera Europa, mieté quasi 30 milioni di vittime – bensì la “pasturella pestis”, un bacillo allocato nella pelliccia dei roditori la quale diede luogo a un iniziale focolaio scoppiato all’inizio del sec. XIV nelle terre antistanti all’Himalaya e sviluppatosi in quelle comprese tra la Birmania, la Cina e l’India. Il virus si diffuse quindi in Occidente allorché i mongoli stabilirono intensi e fecondi rapporti commerciali con gli europei: trovando idonea incubatrice nelle bisacce da sella e nei mantelli a pelo lungo indossati dai mercanti orientali, transitò nelle stoffe e nel vestiario dei viaggiatori via mare diretti ai porti del nostro continente.

Seguendo un virtuale percorso del bacillo, esso passò dall’Himalaya alla Cina ove si sparse nel 1331 e raggiunse nel 1346 il porto genovese di Caffa in Crimea. Si moltiplicò a dismisura a Costantinopoli, sfiorò Messina e nel 1348 infettò completamente la fascia europea mediterranea, toccando Marsiglia, Genova, Spalato, Dubrovnik, Venezia; di seguito Siena, Firenze e tutti i grandi centri urbani dediti agli scambi commerciali con i paesi orientali.

Oltre al bacillo e ai cadaveri, le cronache registrano la crescita esponenziale del fervore religioso, allorché i sopravvissuti all’epidemia tentarono di esorcizzare la calamità facendo erigere cappelle, commissionando affreschi e dipinti; e ancora, altari portatili, statue di Cristo, della Vergine del Soccorso e della Misericordia.

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