Don Giovanni inaugura la stagione lirica 2023

DON GIOVANNI

INAUGURA LA STAGIONE LIRICA 2023 

L’opera in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, torna al Regio per la sesta volta dopo 29 anni e va in scena nell’allestimento del Teatro di San Carlo di Napoli, con la regia di Mario Martone ripresa da Raffele Di Florio, in coproduzione con As.Li.Co. e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.

 Corrado Rovaris dirige l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini e il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani.

Protagonisti Vito Priante (Don Giovanni), Mariangela Sicilia (Donna Anna), Marco Ciaponi (Don Ottavio), Giacomo Prestia (Il Commendatore), Carmela Remigio (Donna Elvira), Riccardo Fassi (Leporello), Fabio Previati (Masetto), Enkeleda Kamani (Zerlina).

 Teatro Regio di Parma

giovedì 12, domenica 15, giovedì 19 gennaio 2023 ore 20.00

sabato 21 gennaio 2023, ore 17.00

Don Giovanni, dramma giocoso in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo da Ponte apre la Stagione lirica 2023 giovedì 12 gennaio 2023 ore 20.00 (recite domenica 15 gennaio ore 20.00, giovedì 19 gennaio ore 20.00, sabato 21 gennaio, ore 15.30), facendo ritorno per la sesta volta al Teatro Regio di Parma, dopo un’assenza lunga 29 anni.

L’opera va in scena nell’allestimento del Teatro di San Carlo di Napoli, in coproduzione con As.Li.Co. e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, con la regia di Mario Martone ripresa da Raffele Di Florio, le scene e i costumi di Sergio Tramonti, le luci di Pasquale Mari, le coreografie di Anna Redi. Corrado Rovaris dirige l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini e il Coro del Teatro Regio di Parma, maestro del coro Martino Faggiani. Nei panni del protagonista Vito Priante, per la prima volta al Teatro Regio; con lui protagonisti in scena Mariangela Sicilia (Donna Anna), Marco Ciaponi (Don Ottavio), Giacomo Prestia (Il Commendatore), Carmela Remigio (Donna Elvira), Riccardo Fassi (Leporello), Fabio Previati (Masetto), Enkeleda Kamani (Zerlina).

Tratto dal dramma El burlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina attraverso il libretto Don Giovanni o sia Il convitato di pietra di Giovanni Bertati per Giuseppe Gazzaniga, Don Giovanni è la seconda opera che compone la trilogia Mozart/Da Ponte, dopo Le nozze di Figaro e prima di Così fan tutte. Composta tra marzo e ottobre 1787, su commissione dell’imperatore Giuseppe II, l’opera debuttò a Praga il 29 ottobre 1787.

“Simbolo di un desiderio di infinito che lo pone in costante relazione con l’Assoluto, Don Giovanni è divenuto un personaggio mitico che ha dato origine a un’imponente letteratura su cui molto si potrebbe dire – scrive il direttore Corrado Rovaris. Ciò che forse più colpisce dell’opera mozartiana è la sua ambiguità di fondo, la pluralità dei registri stilistici, il fatto che un’opera buffa sconfini nel tragico, o meglio che buffo e tragico coesistano, divenendo l’uno lo specchio dell’altro. L’opera vede infatti interagire personaggi di diverse “tipologie”, e dal punto di vista drammaturgico e musicale vi è uno stretto rapporto fra il loro status sociale e il registro stilistico nel quale si esprimono. Da un lato, i personaggi “nobili” come Donna Anna e Don Ottavio sembrano vivere nel mondo dell’opera seria metastasiana, dove il loro ruolo è quello di fungere da custodi di alti valori etici: musicalmente si esprimono in arie che creano vere e proprie oasi contemplative, caratterizzate dal tipico linguaggio fiorito dei virtuosi dell’opera seria. Dall’altro, i personaggi di livello sociale inferiore come Zerlina, Masetto, o Leporello, non hanno nulla dell’opera metastasiana, ma nemmeno sono appiattiti nel convenzionale registro dell’opera buffa. Zerlina, ad esempio, è carattere semiserio, che si esprime musicalmente attraverso stilemi patetici più che buffi. Ma le figure che ruotano attorno a Don Giovanni costituiscono un mondo ben più complesso: Elvira si esprime in versi metastasiani, ma in toni esasperati che suonano sottilmente parodistici, e la sua figura è quasi più tragicomica che di grande eroina tragica. Ma soprattutto, sono gli inquietanti personaggi di Don Giovanni e del Commendatore a trascendere i limiti del teatro musicale di fine ’700. Il Commendatore, con il suo canto ieratico accompagnato dal solenne timbro degli ottoni, come a rappresentare la mano della giustizia divina, richiama una dimensione profondamente sacrale che l’opera “buffa” mai aveva conosciuto fino ad allora; mentre Don Giovanni, protagonista assoluto dell’opera, si trova al centro di questo complesso mondo umano, ed è di volta in volta attratto nella sfera espressiva del personaggio con cui interagisce: si mantiene su un registro “alto” di fronte ad Anna e Ottavio, è insinuante e patetico quando seduce Zerlina, si abbassa allo stile buffo quando schernisce Leporello o deride Elvira, diviene solenne di fronte al Commendatore. Tali registri, tragico e comico, e l’alternanza di affetti che pervadono l’opera, sono esaltati da una sublime orchestrazione che, pur mettendo in risalto ogni singola voce, crea un insieme unico, che ancor oggi affascina per la sua inquietante complessità”.

“Ho avuto la visione della tribuna di questo Don Giovanni in una notte insonne – racconta il regista Mario Martone. Un’apparizione improvvisa, generata da chissà quale gorgo psichico, qualcosa tra il teatro elisabettiano, una arena spagnola, degli scranni di tribunale: tutti i personaggi dell’opera di Mozart e Da Ponte schierati insieme, in una sintesi sincronica dell’insieme vitale che lo slancio di Don Giovanni fende, conquista e offende, tutti, attori e spettatori allo stesso tempo. Nel sogno la tribuna progressivamente si svuotava, e venivano a galla la solitudine, l’apparizione del castigo e della morte, il crollo, e infine il senso di vuoto che avvolge l’ascoltatore nell’apparente lieto fine dell’opera. A quel sogno ho provato a restare fedele. Lo spettacolo si protende verso la platea attraverso dei bracci che avvolgono l’orchestra e che è costituito da un solo elemento scenografico (la tribuna), esattamente come nelle altre mie messe in scena delle opere della trilogia di Mozart e Da Ponte. Teatro fluido, dunque, e non schematizzato per immagini definite, nel tentativo di far arrivare musica e parole dritte all’inconscio degli spettatori. Del resto, se gli si volesse scattare una fotografia, Don Giovanni verrebbe mosso: in quanto tempo si svolge l’azione dell’opera? Quanti anni ha? È giovane o è un uomo maturo? Domande a cui è impossibile dare una risposta certa. Travestimenti, luoghi oscuri e porte smarrite serpeggiano lungo la partitura. Il congegno narrativo di quest’opera è un labirinto, stranamente più simile a una sceneggiatura che a un canovaccio teatrale. Lo spettacolo che abbiamo creato prova ad assecondarne il mistero”.

PRIMA CHE SI ALZI IL SIPARIO

Il compositore, lo stile, la genesi dell’opera sono alcuni dei temi approfonditi da Giuseppe Martini in Prima che si alzi il sipario, sabato7 gennaio 2023, ore 17.00, al Ridotto del Teatro Regio di Parma, con la partecipazione dei soprani Alessia Merepeza, Yuka Wada, Byul Park, del tenore Simone Fenotti, dei baritoni Jo Won Jun, Alex Franzò allievi del Conservatorio di Musica “Arrigo Boito” di Parma, accompagnati al pianoforte da Riccardo Mascia; coordinamento musicale di Donatella Saccardi.

PROVE APERTE

Sono aperte al pubblico le prove di Don Giovanni nei giorni che precedono il debutto. È riservata al pubblico degli under30 la prova dell’opera domenica 8 gennaio 2023, ore 18.00, mentre è aperta a tutta la cittadinanza e alle associazioni musicali che seguono il percorso di promozione culturale la prova di martedì 10 gennaio 2023, ore 15.30.

 

PARTNER E SPONSOR

La Stagione del Teatro Regio di Parma è realizzata grazie al contributo di Comune di Parma, Ministero della Cultura, Reggio Parma Festival, Regione Emilia-Romagna. Major partner Fondazione Cariparma. Main partners Chiesi. Main sponsor Iren, Barilla. Partner Crédit Agricole. Sponsor Parmalat, Parmacotto, Grasselli, CePIM, GloveICT, GHC, Poliambulatorio Dalla Rosa Prati, Metronotte Drill Pac. Con il contributo di Ascom Confcommercio Parma Fondazione, Ascom Parma Confcommercio, Camera di Commercio Parma, Fondazione Monteparma. Legal counselling Villa&Partners. Con il supporto di “Parma, io ci sto!”. Partner artistici Conservatorio Arrigo Boito di Parma, Coro del Teatro Regio di Parma. Partner istituzionale La Toscanini. La Stagione Concertistica è realizzata da Società dei Concerti di Parma, con il sostegno di Chiesi, in collaborazione con Casa della Musica. Wine partner Oinoe. Radio Ufficiale Radio Monte Carlo. Sostenitori tecnici Cavalca, Teamwork, De Simoni, Graphital. Il Teatro Regio di Parma aderisce a Fedora, Opera Europa, Operavision, Emilia taste nature culture, Italiafestival.

BIGLIETTERIA DEL TEATRO REGIO DI PARMA

Biglietti da €10,00 a €110,00. Riduzioni del 50% per gli under 30.

Strada Giuseppe Garibaldi, 16/A 43121 Parma Tel. +39 0521 203999 biglietteria@teatroregioparma.it

Orari di apertura: dal martedì al sabato ore 11.00-13.00 e 17.00-19.00 e un’ora precedente lo spettacolo. In caso di spettacolo nei giorni di chiusura, da un’ora precedente lo spettacolo. Chiuso il lunedì, la domenica e i giorni festivi. Il pagamento presso la Biglietteria del Teatro Regio di Parma può essere effettuato con denaro contante in Euro, con assegno circolare non trasferibile intestato a Fondazione Teatro Regio di Parma, con PagoBancomat, con carte di credito Visa, Cartasi, Diners, Mastercard, American Express. È inoltre possibile utilizzare i voucher di rimborso ricevuti a fronte degli spettacoli annullati per l’emergenza sanitaria. I biglietti per tutti gli spettacoli sono disponibili anche su teatroregioparma.it.it. L’acquisto online non comporta alcuna commissione di servizio.

PROMOZIONI E AGEVOLAZIONI

UNDER 30 I giovani fino a 30 anni hanno diritto a una riduzione del 50% sul prezzo di abbonamenti e biglietti della Stagione Lirica e del 20% su quelli della Stagione Concertistica e di ParmaDanza, per i posti di platea e di palco. La promozione è valida fino a esaurimento posti.

BONUS CULTURA 18APP E CARTA DEL DOCENTE Il Teatro Regio di Parma aderisce a 18App e Carta del Docente, le iniziative a cura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Istruzione riservate ai neo-maggiorenni e ai docenti. Per informazioni www.18App.italia.it; www.cartadeldocente.istruzione.it

SPECIALE GRUPPI Si accettano via email richieste di prenotazioni per gruppi organizzati. Ai gruppi composti da più di 20 persone è riservata una riduzione del 5% sui biglietti degli spettacoli al Teatro Regio. I palchi sono venduti per l’intera capienza e i posti all’interno del palco non sono numerati. È possibile usufruire di alcuni retropalchi in cui intrattenersi prima dell’inizio dello spettacolo e durante gli intervalli; è prevista in questo caso, in aggiunta al costo del biglietto, una quota da concordare con la Direzione del Teatro. Per informazioni groups@teatroregioparma.it 

Parma, 3 gennaio 2023

Teatro Regio di Parma strada Garibaldi, 16/A, 43121 Parma – Italia

Tel. +39 0521 203969
www.teatroregioparma.it

Teatro Regio di Parma

giovedì 12 gennaio 2023, ore 20.00 Opera A
domenica 15 gennaio 2023, ore 20.00 Opera B
giovedì 19 gennaio 2023, ore 20.00 Opera C
sabato 21 gennaio 2023, ore 17.00 Opera D

Durata 3 ore e 15 minuti circa, compreso un intervallo

IL DISSOLUTO PUNITO O SIA

DON GIOVANNI

Musica
WOLFGANG AMADEUS MOZART

Dramma giocoso in due atti (KV 527) su libretto di Lorenzo Da Ponte
dal dramma El burlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina attraverso il libretto Don Giovanni o sia Il convitato di pietra di Giovanni Bertati per Giuseppe Gazzaniga

Personaggi Interpreti
Don Giovanni VITO PRIANTE
Donna Anna MARIANGELA SICILIA
Don Ottavio MARCO CIAPONI
Il Commendatore GIACOMO PRESTIA
Donna Elvira CARMELA REMIGIO
Leporello RICCARDO FASSI
Masetto FABIO PREVIATI
Zerlina ENKELEDA KAMANI

 

Maestro concertatore e direttore
CORRADO ROVARIS

Regia
MARIO MARTONE
ripresa da RAFFAELE DI FLORIO 

Scene e costumi
SERGIO TRAMONTI 

Luci
PASQUALE MARI 

Coreografie
ANNA REDI

ORCHESTRA DELL’EMILIA ROMAGNA ARTURO TOSCANINI

CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA

Maestro del coro MARTINO FAGGIANI

Allestimento del Teatro San Carlo di Napoli

Coproduzione con As.Li.Co. e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia

Spettacolo con sopratitoli

APPROFONDIMENTI

L’OPERA IN BREVE

di Giuseppe Martini

Lo straripante successo ottenuto dalle Nozze di Figaro a Praga – capitale del Regno di Boemia, terza città dell’Impero asburgico e secolare centro di tradizioni musicali – spinse il Nostitztheater a invitare Mozart per alcune repliche, invito che il compositore accettò nel gennaio 1787, tornando a Vienna colmo di onori e con un contratto per una nuova opera. Il fido librettista Lorenzo Da Ponte si mise al lavoro e in giugno il libretto era finito. La musica fu scritta nell’estate e terminata a Praga. La moglie di Mozart, Constanze, riferì che l’ouverture fu preparata la notte prima della prova generale, mentre gli scaldava il punch e per tenerlo sveglio gli raccontava favole dalle Mille e una notte. Il debutto avvenne il 29 ottobre 1787, con enorme successo. Fra gli spettatori c’era anche Giacomo Casanova.

Mozart, che come sempre indaga in musica le motivazioni inconsce delle passioni in un’epoca che dell’inconscio non aveva alcuna nozione, si avvale qui di alcune inaudite soluzioni: la voce del Commendatore che, per esprimersi in linguaggio sovrumano, intona una melodia fatta dalle dodici note dell’ottava che sfugge a qualsiasi connotazione di tonalità, come una serie dodecafonica ante-litteram (“Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste”); lo spostamento dei tromboni dalla tradizionale collocazione in loggia giù in orchestra, per accentuare i toni profondi del terrore, la cui rappresentazione in questi termini faceva irruzione per la prima volta nel teatro d’opera; la separazione fra orchestra in scena e orchestra fuori dalla scena, che crea esplicitamente un divorzio fra sonorità fittizia e voce dell’autore.

A quest’ultima soluzione s’appella anche l’ironia della citazione musicale durante il banchetto nel finale primo, quando l’orchestrina in scena cita un passo dall’opera Una cosa rara di Martín y Soler (che l’anno prima a Vienna aveva scalzato Le nozze di Figaro dal Burgtheater), poi uno da Fra i due litiganti il terzo gode di Giuseppe Sarti e infine “Non più andrai farfallone amoroso” dalle Nozze di Figaro, commentata sardonicamente da Leporello.

Tutta l’opera ruota intorno alla figura del protagonista, personaggio antisociale capace di scatenare un tumulto di passioni nell’umanità fragile e reale con cui viene a contatto. Eppure Don Giovanni non rivela una psiche cangiante, è anzi monolitico e titanico, ma domina le reazioni altrui anche quando non è in scena, animato com’è da un’inappagata sete di vitalità, anzi è la concretizzazione delle possibilità di appagare la gioia di vivere. La sua sigla è la sensualità caparbia della musica che gli ha regalato Mozart. La sua coerenza incrollabile, che lo porta a respingere il pentimento anche di fronte alla richieste di una manifestazione ultraterrena e ne determina la fine, ne fa una figura inquietante che spacca le certezze del secolo della razionalità: Don Giovanni non cede ai suoi giustizieri umani, le sue donne sedotte e i loro uomini gelosi, ma a potenze celesti, senza mai abdicare da sé. Non è una questione di moralità, ma di opposizione fra due stati dell’esistenza: una forza naturale e una che si sottrae al mondo dei sensi.

Per l’allestimento a Vienna del 7 maggio 1788 Mozart e Da Ponte aggiunsero l’aria di Don Ottavio “Dalla sua pace” (I, 14), ampliarono le scene II, 9-10 con il duetto di Leporello e Zerlina “Per queste tue manine”, inserirono l’aria “Mi tradì quell’alma ingrata” scritta per Caterina Cavalieri, che interpretava Donna Elvira, ed eliminarono la scena finale. L’esecuzione non ebbe successo. Da Ponte racconta che l’imperatore Giuseppe II l’apprezzò, ma ammise che non era «cibo per i denti dei miei viennesi».

Mozart si limitò a rispondere: «Lasciamogli il tempo di masticarlo». 

IL LIBRETTO

di Giuseppe Martini

La scelta del soggetto per l’opera sembra proprio sia da attribuirsi al librettista, il vittoriese Lorenzo Da Ponte (1749-1838), già autore del libretto delle Nozze di Figaro, a cui Mozart in proposito aveva dato carta bianca. La sfida era tanto più ardua perché nel contempo Da Ponte doveva affrontare altre due commissioni, per un’opera di Salieri e una di Martín y Soler: a Giuseppe II, che riteneva impossibile l’impresa, rispose che si sarebbe chiuso in stanza lavorando di mattina per Soler («e sarà il mio Petrarca»), al pomeriggio per Salieri («e sarà il mio Tasso») e la notte per Mozart («e sarà il mio Inferno dantesco»), assistito solo da una cameriera sedicenne (Da Ponte, avventuriero e libertino che finirà i suoi giorni addirittura a New York, apparteneva alla stessa genìa dei Casanova e dei De Sade).

Per Don Giovanni attinse per lo schema e per alcuni soluzioni poetiche al libretto di Giovanni Bertati Il convitato di pietra, musicato qualche mese prima da Giuseppe Gazzaniga per la stagione di Carnevale 1787 del Teatro San Moisé di Venezia, nel quale erano a loro volta confluite idee delle versioni di Carlo Goldoni (Don Giovanni Tenorio, o sia il Dissoluto, 1736) e di Molière (Dom Juan, ou le festin de pierre, 1665), in cui la tradizione buffonesca del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina e della commedia dell’arte seicentesca veniva ripulita elevando il protagonista a una dimensione psicologica razionalista. La qualità poetica di Da Ponte è comunque senza dubbio superiore, e nuova la complessità della materia che propone.

Rispetto al modello, che era peraltro conciso in un solo atto (Da Ponte taglia invece il suo in due atti), viene portata in primo piano la figura di Donna Anna, vera personificazione della vendetta, e sono introdotte le nuove scene del finale primo con il banchetto, che rappresentò una macchina drammaturgica destinata a fare scuola nell’opera italiana, e quella del balcone nel secondo atto. Sono poi sviluppati e ampliati con finezza d’inventiva e di versificazione i brani del catalogo e della seduzione di Zerlina. Ma la difficoltà principale di Da Ponte rimase quella di prolungare per due atti la caccia erotica di Don Giovanni, necessaria peraltro a farlo approdare fatalmente al cimitero e dare adito alla conclusione: pur ricorrendo al tema dello scambio di abiti fra Leporello e il suo padrone, peraltro già in Molière, si avverte nella prima parte del secondo atto una difficoltà inventiva – a cui peraltro Mozart avrebbe posto riparo con la musica – che costringe il librettista a ricorrere a luoghi corrivi dell’opera buffa.

Si discosta da Bertati anche la catastrofe finale, che peraltro fu accentuata da Mozart e Da Ponte nella versione viennese del 1788 con l’eliminazione del fugato e la calata del sipario mentre il protagonista viene inghiottito negli inferi, dando la stura a un plurisecolare dibattito sulla natura drammaturgica del Don Giovanni. Se è vero che la divisione dei personaggi (tre parti buffe, tre serie e due realistiche) è da “dramma giocoso”, la coesistenza di comico e tragico – pur tenuti ben separati – porta senza dubbio a superare le convenzioni teatrali del tempo. A questo scopo le capacità poetiche di Da Ponte offrirono un contributo di sostanza: uso degli accenti, velocità sintattica, abilità di sintesi, visione drammaturgica. Qui è sufficiente osservare la simmetria fra l’apparizione delle tre maschere nel finale primo e della statua parlante nel finale secondo, rispettivamente simboli di giustizia terrena e ultraterrena, l’accortezza nel tratteggiare gli scambi di ruolo fra Don Giovanni e Leporello e le ambizioni di elevazione sociale di quest’ultimo, al limite di un’ambigua immedesimazione con la figura del padrone, non ultimo tratto di un libretto che gareggia con la musica nell’esplorazione della psiche.

SINOSSI

Atto I

Davanti al palazzo di Donna Anna, nottetempo, Leporello si lamenta della vita a cui lo costringe il suo padrone Don Giovanni, mentre attende che torni da una delle sue avventure galanti (introduzione “Notte e giorno faticar”). L’impresa di Don Giovanni, sedurre Donna Anna in incognito, non riesce: la dama lo insegue per scoprirne l’identità e lo strepito fa accorrere il padre di lei, il Commendatore, che, allontanatasi la figlia a chiedere aiuto, sfida Don Giovanni a duello restandone mortalmente colpito. A quel punto Don Giovanni e Leporello fuggono. Grande è lo sgomento di Donna Anna quando scopre il cadavere del padre, assistita dal fidanzato Don Ottavio, a cui Donna Anna fa giurare aiuto nel vendicarsi (duetto “Fuggi, crudele, fuggi”).

Poco dopo Don Giovanni e Leporello si imbattono in una donna che si lamenta del proprio amante (aria “Ah chi mi dice mai”): subito interessato, Don Giovanni le si avvicina per sedurla con la scusa di consolarla, ma scopre che si tratta di Donna Elvira, che egli stesso aveva abbandonato a Burgos con la promessa di sposarla. Imbarazzato dalle richieste di spiegazione della donna, lascia a Leporello il compito di giustificarlo e scappa: a Leporello non resta che rivelare a Donna Elvira l’infinito elenco di conquiste del suo padrone, di cui lo stesso servitore tiene nota in un catalogo (aria “Madamina, il catalogo è questo”).

Ma Don Giovanni non si ferma: eccolo che cerca di aggiungere alla sua lista la contadinella Zerlina, promessa sposa a Masetto. Prima liquida il ragazzo con l’aiuto di Leporello (aria “Ho capito, signorsì”) e poi, rimasto solo con Zerlina, cerca di circuirla invitandola in un casinetto di sua proprietà con la promessa di sposarla (duetto “Là ci darem la mano”). Zerlina tentenna ed è sul punto di cedere, quando irrompe Donna Elvira, che la mette in guardia da Don Giovanni e se la porta via.

Arrivano Donna Anna e Don Ottavio, per chiedere a Don Giovanni appoggio nella ricerca dell’assassino del Commendatore, ma riappare Donna Elvira, che esorta a diffidare del cavaliere (quartetto “Non ti fidar, o misera”), che a sua volta cerca di farla passare per pazza. Don Giovanni si congeda offrendo a Donna Anna i propri servigi.

Alle sue parole Anna trasalisce: ha riconosciuto la voce dell’assassino di suo padre.

Racconta l’episodio della tentata violenza a Don Ottavio (che sospira quando scopre che questa non è riuscita) e lo spinge a farle giustizia (aria “Or sai chi l’onore” e aria per l’edizione viennese “Dalla sua pace”).

Don Giovanni comunque non si ferma e vuole allungare l’elenco delle conquiste.

Ordina a Leporello di preparare una festa ricca di mense e libagioni, invitando belle ragazze (aria “Fin ch’han dal vino”). Nel giardino del palazzo di Don Giovanni, Zerlina cerca di far pace con Masetto (aria “Batti, batti bel Masetto”). Quando arriva Don Giovanni, Masetto si nasconde per verificare la fedeltà di Zerlina, ma viene scoperto subito.

Con prontezza Don Giovanni invita entrambi alla festa. Intanto Leporello ha scorto tre persone in maschera e le invita alla festa a nome del padrone. Avviate le danze, Don Giovanni balla con Zerlina spingendola verso una porta per approfittare di lei. Le urla della ragazza attirano gli invitati, che si precipitano in suo soccorso. Don Giovanni cerca allora di addossare su Leporello la colpa della tentata violenza. A quel punto le tre maschere si rivelano: sono Donna Elvira, Donna Anna e Don Ottavio, venuti apposta per sgominare Don Giovanni, accusandolo pubblicamente. Ma Don Giovanni riesce a fuggire, seguìto da Leporello (finale “Presto presto, pria ch’ei venga”).

Atto II

Verso sera, nei pressi dell’alloggio di Donna Elvira, Leporello prova a prendere le distanze dal padrone accusandolo d’empietà (duetto “Eh via buffone”), ma Don Giovanni prima lo mette a tecere con un’offerta di denaro, e poi lo obbliga a scambiare gli abiti con lui, in modo da corteggiare più agevolmente la cameriera di Donna Elvira, mentre Leporello dovrà indurre in errore Donna Elvira facendola allontanare da casa.

Il piano riesce: pensando in un ravvedimento di Don Giovanni, Elvira si allontana con Leporello travestito, e Don Giovanni ha tutto il comodo di fare una serenata sotto il balcone (canzonetta “Deh, vieni alla finestra”). Ma ecco un nuovo imprevisto: arrivano Masetto e alcuni contadini armati di bastoni per uccidere Don Giovanni.

Questi, travestito da Leporello, offre loro aiuto disperdendoli in direzioni diverse per poi, rimasto solo con lui, coprire di legnate Masetto. I lamenti del contadino arrivano all’orecchio di Zerlina, che corre in suo aiuto (aria “Vedrai carino”).

Intanto, girovagando, Leporello e Donna Elvira arrivano dalle parti del palazzo di Donna Anna. Ormai Leporello è in difficoltà e teme di essere scoperto, così cerca di allontanarsi con una scusa, ma in breve s’imbatte in Donna Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto che, credendolo Don Giovanni, minacciano di giustiziarlo (sestetto “Sola sola in buio loco”). Disperato, a Leporello non resta che svelare la propria identità – con scorno di Donna Elvira che riconosce di essere stata beffata – per poi scappare.

Don Ottavio è deciso a consegnare Don Giovanni alla giustizia e lo comunica agli amici pregandoli di prendersi cura di Donna Anna (aria “Il mio tesoro intanto”).

Quanto a Elvira, rimasta sola, non resta che esprimere la lacerazione del proprio animo, diviso fra amore e desiderio di vendetta (aria per l’edizione viennese “Mi tradì quell’alma ingrata”).

È ormai notte. Don Giovanni s’è rifugiato nel cimitero, dove lo aspetta Leporello. Don Giovanni se la ride al racconto delle sue disavventure, ma la risata viene interrotta da una voce minacciosa che lo ammonisce: smetterà di ridere prima che spunti l’aurora. La voce sembra provenire dalla statua sopra la tomba del Commendatore.

Don Giovanni non si fa intimorire, anzi sfida la statua e la invita a cena, ordinando a un terrorizzato Leporello di formulare ufficialmente l’invito alla statua parlante (duetto “O statua gentilissima”). La statua accetta. Leporello, terrorizzato, supplica il padrone di lasciare quel luogo spaventoso.

Mentre Don Ottavio, in casa di Donna Anna, cerca di convincerla alle nozze e la donna lo prega d’aspettare di compiere la propria vendetta su Don Giovanni, in casa del libertino la cena è pronta (finale secondo “Già la mensa è preparata”) e lui è già a tavola mentre suona un’orchestrina di fiati.

Entra Donna Elvira. Disperatamente cerca di convincere Don Giovanni al pentimento, ma ne guadagna solo derisione; se ne va, ma nell’allontanarsi, si sentono le sue grida di terrore.

Don Giovanni ordina a Leporello d’andare a controllare cosa sia successo, ma gli giungono anche le grida del servo che, rientrato impallidito dallo sgomento, annuncia che alla porta c’è la statua del Commendatore. Don Giovanni non si perde d’animo e fronteggia il convitato. La statua declina l’invito: ben altro è il cibo di cui si pasce un defunto. A sua volta invita Don Giovanni a cena e chiede la sua mano in pegno. Don Giovanni non si lascia intimorire e gliela porge. Stretta fatale. Nonostante le reiterate richieste della statua, Don Giovanni rifiuta di pentirsi e viene trascinato così in un abisso di fiamme infernali.

Tardi arrivano Donna Elvira, Donna Anna, Zerlina, Masetto, Don Ottavio e gli altri personaggi: Leporello non può che constatare che la giustizia del Cielo li ha anticipati.

Si volta pagina e ognuno penserà al proprio domani.

NOTE DI DIREZIONE

di Corrado Rovaris

Simbolo di un desiderio di infinito che lo pone in costante relazione con l’Assoluto,

Don Giovanni è divenuto un personaggio mitico che ha dato origine a un’imponente letteratura su cui molto si potrebbe dire.

Ciò che forse più colpisce dell’opera mozartiana è la sua ambiguità di fondo, la pluralità dei registri stilistici, il fatto che un’opera buffa sconfini nel tragico, o meglio che buffo e tragico coesistano, divenendo l’uno lo specchio dell’altro.

L’opera vede infatti interagire personaggi di diverse “tipologie”, e dal punto di vista drammaturgico e musicale vi è uno stretto rapporto fra il loro status sociale e il registro stilistico nel quale si esprimono.

Da un lato, i personaggi “nobili” come Donna Anna e Don Ottavio sembrano vivere nel mondo dell’opera seria metastasiana, dove il loro ruolo è quello di fungere da custodi di alti valori etici: musicalmente si esprimono in arie che creano vere e proprie oasi contemplative, caratterizzate dal tipico linguaggio fiorito dei virtuosi dell’opera seria.

Dall’altro, i personaggi di livello sociale inferiore come Zerlina, Masetto, o Leporello, non hanno nulla dell’opera metastasiana, ma nemmeno sono appiattiti nel convenzionale registro dell’opera buffa. Zerlina, ad esempio, è carattere semiserio, che si esprime musicalmente attraverso stilemi patetici più che buffi.

Ma le figure che ruotano attorno a Don Giovanni costituiscono un mondo ben più complesso: Elvira si esprime in versi metastasiani, ma in toni esasperati che suonano sottilmente parodistici, e la sua figura è quasi più tragicomica che di grande eroina tragica.

Ma soprattutto, sono gli inquietanti personaggi di Don Giovanni e del Commendatore a trascendere i limiti del teatro musicale di fine ’700.

Il Commendatore, con il suo canto ieratico accompagnato dal solenne timbro degli ottoni, come a rappresentare la mano della giustizia divina, richiama una dimensione profondamente sacrale che l’opera “buffa” mai aveva conosciuto fino ad allora; mentre Don Giovanni, protagonista assoluto dell’opera, si trova al centro di questo complesso mondo umano, ed è di volta in volta attratto nella sfera espressiva del personaggio con cui interagisce: si mantiene su un registro “alto” di fronte ad Anna e Ottavio, è insinuante e patetico quando seduce Zerlina, si abbassa allo stile buffo quando schernisce Leporello o deride Elvira, diviene solenne di fronte al Commendatore. Tali registri, tragico e comico, e l’alternanza di affetti che pervadono l’opera, sono esaltati da una sublime orchestrazione che, pur mettendo in risalto ogni singola voce, crea un insieme unico, che ancor oggi affascina per la sua inquietante complessità.

NOTE DI REGIA

di Mario Martone

Ho avuto la visione della tribuna di questo Don Giovanni in una notte insonne. Un’apparizione improvvisa, generata da chissà quale gorgo psichico, qualcosa tra il teatro elisabettiano, un’arena spagnola, degli scranni di tribunale: tutti i personaggi dell’opera di Mozart e Da Ponte schierati insieme, in una sintesi sincronica dell’insieme vitale che lo slancio di Don Giovanni fende, conquista e offende, tutti attori e spettatori allo stesso tempo. Nel sogno la tribuna progressivamente si svuotava, e venivano a galla la solitudine, l’apparizione del castigo e della morte, il crollo, e infine il senso di vuoto che avvolge l’ascoltatore nell’apparente lieto fine dell’opera. A quel sogno ho provato a restare fedele. Lo spettacolo si protende verso la platea attraverso dei bracci che avvolgono l’orchestra ed è costituito da un solo elemento scenografico (la tribuna), esattamente come nelle altre mie messe in scena delle opere della trilogia di Mozart e Da Ponte. Teatro fluido, dunque, e non schematizzato per immagini definite, nel tentativo di far arrivare musica e parole dritte all’inconscio degli spettatori. Del resto, se gli si volesse scattare una fotografia, Don Giovanni verrebbe mosso: in quanto tempo si svolge l’azione dell’opera? Quanti anni ha? È giovane o è un uomo maturo? Domande a cui è impossibile dare una risposta certa. Travestimenti, luoghi oscuri e porte smarrite serpeggiano lungo la partitura. Il congegno narrativo di quest’opera è un labirinto, stranamente più simile a una sceneggiatura che a un canovaccio teatrale. Lo spettacolo che abbiamo creato prova ad assecondarne il mistero.

 TA-TA-TA-TA!

di Sergio Tramonti

Il segno di regia che Mario Martone mi ha lanciato per il nostro Don Giovanni, fin dalla prima planimetria, si raccorda con inesorabile logica all’allestimento scenico di Così fan tutte rappresentato al Teatro di San Carlo nel 1999.

L’andamento di quella scenografia era fortemente caratterizzato da una “piccola” pedana in legno (un quadrato di m. 7×7) a sbalzo sull’orchestra, e da due ponti laterali, a destra e a sinistra della buca, che idealmente si ricongiungevano al centro verso il podio del direttore. Anche questa volta la spinta della pedana, determinata e ridisegnata dalla gradinata curvilinea, speculare all’arco della ribalta, è decisamente a sbalzo sul pubblico oltre che sull’orchestra, è una porzione di arena per gli interpreti inquadrata per larghezza dall’arco scenico, è un’ellisse che si offre al pubblico, leggermente inclinata, senza quinte né fondali.

La gradinata che all’inizio dello spettacolo sarà interamente occupata dalla folla (il coro, i figuranti e le orchestrine mescolati ai personaggi dell’opera) si svuoterà, scena dopo scena, fino ad evidenziare un ultimo, sinistro, funereo “spettatore”: la statua di pietra del Commendatore.

Per “colorare” e “scolpire” la scena ho proposto a Mario di occuparmi anche dei costumi e delle maschere. L’ultima volta che ho firmato scene, costumi e maschere è stato per l’allestimento di Giovanna d’Arco al rogo di Honegger-Claudel, per la regia del caro Franco Enriquez al “Carlo Felice” di Genova.

Abbiamo deciso di intraprendere questo progetto avvalendoci della collaborazione di Ursula Patzak, una giovane costumista, determinante anche per la Lulu di Alban Berg, diretta da Stefan Anton Reck, al Teatro Massimo di Palermo. Quindi di ridisegnare un Seicento barocco – spagnolo – napoletano, pensando alle luci di Rembrandt, alle punte secche di Goya, e ai ritratti di Franz Hals, e con uno sguardo ancor più libero e senza preoccupazioni filologiche a tutta la pittura italiana fino a Tintoretto, aspettando le luci di Pasquale Mari.

“Ta-ta-ta-ta!” così lo zoppicante Leporello descrive il passo della Statua di Pietra, il suo fragore inesorabile, pauroso, nella scena XV del secondo atto del Don Giovanni.

La morte è scandita dal ritmo. In pochi istanti, con una frattura da grande teatrante, come nelle tragedie di Shakespeare, Mozart spezza e rompe la brillante, spavalda cena di Don Giovanni e la trasforma in una tetra, bronzea, lugubre, divina commedia tragica.

È STATA LA MANO DI MOZART

di Giuseppe Martini

Arrogante, astuto, libertino, accorto, ingannatore, Don Giovanni arriva a Mozart distillato da un secolo e mezzo di letteratura che Lorenzo Da Ponte si trova a dover riordinare per un libretto d’opera tenendo sul tavolino come riferimenti Don Giovanni Tenorio di Goldoni e l’atto unico di Bertati per l’operina di Gazzaniga: del resto Mozart stimava molto il Goldoni librettista e avrà avallato, se non suggerito, la scelta di Da Ponte, che anche per ragioni di tempo procedette a un ruvido saccheggio dalle sue fonti senza porsi il problema di risalire ai Don Giovanni di Tirso de Molina o di Molière, a loro volta sublimazioni di una leggenda popolare rifratta in miriadi di versioni, dai teatri di strada ai balletti.

E infatti il seduttore della commedia di Tirso è un ingannatore seriale (burlador) e un eretico che sbeffeggia il mistero della morte redentrice (perciò l’essenza del Cristianesimo), quello di Molière è un razionalista che irride dogmi e superstizioni anticipando di quasi un secolo gli illuministi, mentre il Don Giovanni di Da Ponte è solo un malandrino che inanella un tentativo di seduzione dietro l’altro infilandosi in una serqua di pasticci il cui dato più rilevante è l’abilità che sfoggia per uscirne. Anzi, sembra proprio che Da Ponte abbia voluto eliminare ogni complicazione e limitarsi a fare di Don Giovanni non più che un personaggio da opera buffa, o comunque a farlo muovere su questo binario per tutta quella lunga parentesi che comincia dopo la morte del Commendatore e si chiude con la scena del cimitero, nonostante il brulicare di amanti offese, fidanzati gelosi e premonizioni sinistre: nel timore che l’impianto da opera seria con cui aveva impostato il lavoro Mozart rischiasse di fare fiasco in una piazza che si era esaltata per Le nozze di Figaro, pare che il fido librettista abbia insistito per deviare più sul comico, tramutando il dramma serio in “dramma giocoso”. 

Dramma giocoso

Molto si è detto su questo sottotitolo che per alcuni sarebbe una formula ideata per identificare il misto di tragedia e comicità che caratterizza il Don Giovanni mozartiano.

A parte che Mozart sulla partitura ha scritto “Dramma buffo”, la realtà è che la parola “dramma” nel Settecento era da intendersi come sinonimo di “testo teatrale”, di cui diveniva dirimente la determinazione aggettivale (serio, buffo, giocoso che fosse). La formula “dramma giocoso” è usata in altri lavori di Da Ponte, si ritrova in vari libretti d’opera settecenteschi e va intesa semplicemente come “opera comica”, tenendo presente che all’epoca per “comico” si intendeva tutto ciò che non era tragico: perciò non solo il buffonesco, ma anche l’idillico, il sentimentale e l’erotico. Sono dunque comici anche “Là ci darem la mano”, “Batti, batti, bel Masetto” e “Ah taci, ingiusto cuore”, fine.

Che poi “giocoso” possa vantare una sfumatura rispetto a “comico” si può anche discutere, ma sarebbe un finto problema associarlo alle variazioni di interpretazione del significato dell’opera in relazione ai due finali, quello che a Praga vedeva il ritorno in scena dei protagonisti che cantano la morale (“l’antichissima canzon”, che sarà di modello anche per Verdi nel finale di Falstaff) e quello che l’anno dopo a Vienna fu reso più fulminante da Mozart facendo calare la tela sul grido di Don Giovanni inghiottito dalle fiamme infernali. Nell’opera, si ricordi, conta prima di tutto il contesto della messinscena.

La scelta per Mozart sarà stata più che altro di efficacia e non, come invece sarà vissuto dall’Ottocento romantico, per cambiare il significato dell’opera.

Il significato dell’opera

Privato delle problematiche dei testi seicenteschi, il libretto di Da Ponte si limita a mettere in scena le vicende di un uomo impegnato a tempo pieno nei piaceri vitali (non si limita a sedurre: mangia e beve con gusto, anche), sul quale aleggia la riprovazione generale per motivi contingenti, più che morali: Leporello perché si trova costretto nei disagi, le donne perché a vario titolo sedotte e abbandonate, i fidanzati perché gelosi.

Per peccati del genere pare in effetti sproporzionata la terribile punizione divina dell’epilogo, che infatti si appella semmai all’omicidio, conseguenza di una sicurezza di sé e di uno sprezzo dell’altro di cui l’impulso seduttivo è solo la manifestazione esteriore più evidente, o maniacale.

È il libertino razionalista di Molière, incapace di credere al soprannaturale, disposto ad accettare persino una statua parlante perché avrà certamente anche questo una spiegazione – magari seguendo Condillac, il filosofo della statua che si rianima sentendo gli odori –, ateo, sprezzatore di ogni superstizione e inneggiatore a una libertà che Mozart non si perita di fargli ribadire – nel 1787 l’Europa era in fermento, era annunciata la convocazione degli Stati Generali di Francia dopo centosettant’anni – provocando l’entusiasmo del pubblico praghese.

Alla fine, punito il dissoluto, si ristabilisce l’ordine. Ma tutto non potrà più essere come prima. I personaggi che fino a quel momento erano vissuti con sentimenti diversi in relazione a Don Giovanni, ora si sgonfiano come palloncini. Ognuno esce cambiato, da questa vicenda. Ma non è il libretto a dircelo. Lo fa Mozart attraverso la musica, intervenendo su una materia che Da Ponte aveva cercato di assemblare in un filo comico rocambolesco ma fitto di rimandi e simmetrie.

Rimandi e simmetrie

Poco cambia che il librettista fosse consapevole o meno delle trasformazioni di personaggi e situazioni nella secolare tradizione letteraria dongiovannesca. A mero titolo di curiosità si noti che Donna Anna è già in Tirso, ove il Commendatore (di Calatrava) si chiama Don Gonzalo de Ulloa, mentre Elvira, moglie o fidanzata di Don Giovanni che sia, appare in Molière; che della lista di Leporello si accenna per la prima volta nel Don Giovanni di Giacinto Andrea Cicognini (1632); che Zerlina e Masetto sono nobilitati da Da Ponte per ragioni pratiche nell’espressione linguistica, poiché i loro antecedenti molieriani Charlotte e Pierrot parlano in patois e sono molto più rozzi; e che lo scambio di vestiti con Leporello è in Molière, ma meno produttivo. Si perde invece la scena di Molière con Don Giovanni che sfida il mendicante a bestemmiare: Da Ponte e Mozart hanno smussato qualsiasi spigolo, per evitare problemi di censura.

Da Ponte rielabora perciò la tradizione precipitata in Goldoni e Bertati, e risistema.

Accentua la figura di Leporello come doppio del suo padrone: ne rifà il nome (era Caterinone in Tirso, Pasquariello in Molière e Bertati, Carino in Goldoni) e lo plasma come un brontolone che esordisce a colpi di verbi all’infinito (faticar, gradir, sopportar, servire, mangiare, dormir) come Uberto all’inizio della Serva padrona di Pergolesi (“Aspettare e non venire / stare a letto e non dormire, / ben servire e non gradire, / son tre cose da morire”). Leporello ambisce a essere Don Giovanni. Vuole fare il gentiluomo. Ne prende le distanze due volte, perché stufo di finire nei guai, salvo – una volta rifornito di contante – sodalizzare con lui nella scena del finto pentimento nel secondo atto: in realtà è un malandrino della stessa risma del suo padrone, solo di grado sociale diverso, irrazionale e fifone.

A sua volta Don Giovanni è un puro seduttore settecentesco, attira nella trappola non con la prestanza o la virilità, ma con la parola. Te la racconta, e ci caschi. Lo si coglie nell’unico momento di azione seduttoria a vista, quello con Zerlina, prima di una serie di premonizioni: la mano che gli darà Zerlina si trasforma nel secondo atto in quella che gli porgerà la fatale statua.

Ma ci sono altre simmetrie ordite da Da Ponte. Leporello brontola a inizio dei due atti; nel primo atto Don Giovanni non riconosce Elvira, nel secondo Elvira non riconosce Leporello travestito da Don Giovanni; il terrore di Leporello fintamente accusato da Don Giovanni e il terrore di Leporello durante il sestetto; le due arie erotiche di Zerlina con Masetto; le tre maschere, ovvio, e la statua finale, giudici sinistri di un tribunale immaginario, entrambi legati ai due finale mangerecci, in cui alla fine sarà Don Giovanni a essere mangiato.

Riferimenti, poi, a iosa. Più di tutti, al tempo – “Ecco il tempo di fuggir”, “Tempo non ha scusate”, “Parlo, ascolta, più tempo non ho”, “Ah, tempo più non v’è” – conseguenza di una redenzione sempre rinviata per godere del qui e ora. Per non dire, a parte quelle di Elvira e delle maschere, della citazione profetica di “Non più andrai” dalle Nozze (ma questa l’ha inserita Mozart) e di goliardate estemporanee, come “Ah, che piatto saporito”, allusione a Teresa Saporiti che interpretava Donna Anna a Praga, o “Sì, eccellente è il vostro cuoco” (Kuchar, cuoco in ceco, era maestro al cembalo alla prima).

In questo meccanismo Da Ponte ha dovuto inserire vicende a catena che concedessero lo spazio convenzionale ai momenti solistici dei cantanti, che ubbidissero alle richiesta di varietà di Mozart e che tirassero la vicenda alla lunga per consentire a Don Giovanni e Leporello di finire rifugiati per caso nel cimitero. Tanto più che il suo modello, Bertati, dopo la seduzione di Maturina vola alla conclusione, lasciando a corto di idee. E se talora Da Ponte va in affanno, riducendo Don Giovanni a un birbone costretto di continuo a mentire e a scappare, compensa con le sontuose invenzioni del finale primo e del sestetto “Sola, sola in buio loco”, vertice della rivelazione di un’umanità dolente. Eppure lasciato così, per quanto gustosissimo, sarebbe stato non più che un canovaccio privo di colpi di scena, se non fosse intervenuta la mano di Mozart.

 La mano di Mozart

Che, semplicemente, ha steso sul libretto l’ambiguità, il mistero, il non detto, che è quello delle pulsioni inconsce che governano i comportamenti. Inutile incapricciarsi a capire quanto Donna Anna sia rimasta segnata da qualsiasi cosa sia davvero accaduta nella sua alcova con Don Giovanni; quali rapporti leghino Donna Elvira al seduttore; se Don Ottavio incarni il maschio perbenista e antierotico o il sentimento consolatorio dell’ignuda condizione umana; e, infine, chi sia in effetti Don Giovanni. Mozart ha preferito lasciarci nel dubbio, obbligandoci a consultare la nostra psiche per capire la loro. Lo ha fatto con una musica aggrumata di fluttuazioni armoniche che si fanno colore e danno significato ineffabile anche alle tirate in lungo di Da Ponte, agli impulsi di un’umanità risentita, alla vuotaggine dei corteggiamenti dongiovanneschi (il tema musicale del finto pentimento a Elvira è lo stesso che usa per corteggiare la cameriera!), al bisogno di liberazione da quegli affanni che ci attirano verso la catarsi finale di una statua che si fa vivente, vero incubo emerso dagli strati più oscuri del subconscio.

Per evitare di cadere in quello che è stato definito «il mestiere dell’interprete di Don Giovanni», che include già nomi eccellenti da Kierkegaard a Hoffmann, meglio allora seguire il suggerimento di Mozart: quello di una musica che spinge a sondare l’oscura congiunzione di amore e morte, e a intuire ciascuno da sé il significato di questa capitale contemplazione dei casi umani.

WOLFGANG AMADEUS MOZART

(Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791)

Figlio di un eccellente violinista, il piccolo Mozart apprese dal padre la musica e una buona cultura di base, fra cui latino, francese e italiano, a sei anni già componeva e sostenne un tour al clavicembalo insieme alla sorella, e un altro nel centro Europa con il padre l’anno successivo. Non servono più di tanto gli svariati tentativi di spiegare la psicologia del ragazzo per constatare come questa educazione sia stata decisiva per il suo sviluppo caratteriale e le sue scelte professionali, a cominciare da quella che nel 1781 lo portò a rifiutare l’impiego di primo violino e direttore d’orchestra dell’arcivescovo di Salisburgo, ottenuto a tredici anni gratuitamente e dal 1773 con retribuzione, per tentare l’avventura da libero professionista a Vienna.

A quella decisione approdò dopo l’esperienza a contatto con il mondo musicale europeo a séguito del padre in Italia fra 1769 e 1773, a Monaco di Baviera nel 1775, a Mannheim nel 1778 e poco prima (con la madre, che lì morirà) a Parigi, riuscendo a far allestire alcune sue opere. Ed è proprio all’opera che aspirava Mozart come apice della propria realizzazione professionale: nonostante l’impiego di Kammermusikus imperiale e i successi del Singspiel Die Entführung aus dem Serail e poi delle tre opere italiane su libretto di Lorenazo Da Ponte, Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790) – esiti invero contrastati sulla piazza viennese, allora incline a un teatro più svagato – le sue condizioni economiche non divennero mai soddisfacenti per mantenere sé, la moglie Constanze e i due figli. Anzi, la difficoltà della sua musica da camera – certe sue sonate per pianoforte non risultavano di facile approccio per i dilettanti – e i volubili cambiamenti di gusto del pubblico viennese gli alienarono rapidamente la piazza, complicata negli ultimi anni dalla congiuntura economica seguita alla guerra austro-turca.

Continue divennero perciò le richieste di prestiti agli amici o di organizzare concerti a cui il pubblico, attratto da musica meno difficile e più spensierata, spesso non rispondeva. Non c’era più accanto a lui la guida scomoda ma sensata del padre,

che un tempo da Salisburgo cercava di convincerlo quanto la semplicità non fosse necessariamente banalità. L’amicizia di Joseph Haydn, che riconobbe subito tutta la grandezza del giovane collega, lo incoraggiò anzi a perseguire il proprio ideale di altezza musicale: ne sortirono alcuni fra i capolavori di tutti i tempi in generi di alta sostanza drammatica (concerto da camera, concerto per pianoforte, sinfonia, quartetto, quintetto), nei quali il tocco felice e la convivenza di piacevolezza e fatalismo non dissimulano quella ricerca di felicità promessa e mai appagata che lo aveva tormentato per tutta la vita, che si sublima nel mondo favoloso della Zauberflöte e che s’infrangerà sulla vetta del Requiem incompiuto.

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