Diamonds, da Torino a New York, i volti delle periferie nel libro fotografico del fotografo di moda Steve Panariti

Ogni città ha una propria Barriera. Steve Panariti con Diamonds parte da Torino, da Barriera di Milano, il quartiere dove è nato e cresciuto, per andare ad esplorare aree simili di diverse città e raccontare lo spirito delle periferie attraverso i volti di chi abita ai confini.

Gli scatti sono stati realizzati in sei anni in giro per il mondo, in luoghi caotici e multietnici, durante i viaggi di lavoro di Steve, fotografo di moda al seguito di grandi brand. Parallelamente alle foto alle super top e modelle, Panariti ha iniziato fin dal 2000 a documentare la vita reale “dietro le quinte”, fotografando ciò che accade dietro al set e poi per strada, attraverso un percorso fatto di persone vere con vite difficili e storie interessanti. «Molti mi raccontano la loro storia – spiega Steve Panariti – qualcuno mi vuole picchiare». Una selezione di questi scatti è stata raccolta nel primo libro fotografico Diamonds edito da 89Books con i testi del gallerista torinese Guido Costa. 

TESTO CRITICO DI GUIDO COSTA 

A Torino con Barriera si intendono quei quartieri che un tempo separavano il centro città dall’aperta campagna. La Barriera corrispondeva in genere alla cinta daziaria, rappresentando una sorta di confine virtuale dove venivano pesate le merci in entrata ed uscita dalla città e pagati i relativi dazi o imposte. Erano dei varchi controllati, ma anche l’ultimo limite dell’urbanizzazione. Come tutte le frontiere erano un luogo di traffici e di piccolo commercio, con una loro particolare architettura, fatta di case basse dai tratti rurali, allungate lungo la strada in uscita dalla città. Chi non poteva permettersi di abitare in città, nemmeno nei quartieri più popolari del centro storico, si spostava in Barriera dove gli affitti erano molto bassi e i ritmi ancora contadini. Così aveva fatto Emilio Salgari, in fuga dai debiti e dalla miseria, e proprio in Barriera di Casale, al primo piano di una vecchia cascina aveva immaginato Sandokan e le Tigri della Malesia. Eppure, già verso i primi decenni del secolo scorso le varie Barriere di Torino non erano già più l’estrema periferia, ma poco per volta erano state assorbite nello sviluppo edilizio, fino a diventare nel secondo dopoguerra una specie di cintura tra il centro città e le periferie più lontane. Ancora oggi se ne possono riconoscere i resti, fatti di piccoli edifici a due piani dai lunghi ballatoi, incastonati tra i tristi condomini della speculazione edilizia moderna.  

Le profonde trasformazioni di Torino da capitale del Regno, a grande polo industriale, fino all’attuale metropoli multietnica hanno paradossalmente conservato il tessuto delle Barriere, via via abitate da chi non poteva insediarsi nel centro città e nemmeno negli sterminati quartieri operai a ridosso delle grandi fabbriche. Per decenni, e ancora oggi, le Barriere sono state così il primo approdo per i nuovi arrivati in città, un tempo dalle campagne del Piemonte, poi dal sud Italia, oggi da tutto il pianeta.  

Esiste, a Torino, un vero e proprio spirito di Barriera, da sempre, antagonista allo spirito borghese della città e in un certo qual modo assai diverso anche da quello che anima i vecchi quartieri operai, come Mirafiori o le Vallette. La Barriera è un confine, e come tale è aperto su due lati. Non è un caso, forse, che nelle Barriere siano nati famosi fuorilegge e celebri imprenditori, canaglie e beati della Chiesa. Se esiste un blues torinese, non viene certo da Mirafiori, né dalla Crocetta, ma da Barriera di Milano, ne sono sicuro. Ci sono poi i luoghi di Barriera, i riti di Barriera, le facce di Barriera, lo stile di Barriera. Sono sfumature, ma per coglierle devi averci passato tanto tempo, meglio ancora se lì ci sei nato.

Queste, di Steve Panariti, sono foto di Barriera, e non importa se non tutte sono state scattate proprio li, a Barriera di Milano, dove lui ha vissuto da adolescente. Della Barriera hanno il sapore crudo, il contrasto forte e una certa estetica sgangherata, da presa diretta. L’impostazione è quella del crooner e i suoi ritratti sono privi di abbellimenti, volutamente antigraziosi. Non è documentazione o sociologia, non è poesia o compiaciuta elegia: è un’operazione di confine, nutrita di racconti, di microstorie, abitata da esperienze personali e incontri veri. C’è una lunga tradizione fotografica che si nutre della stessa sensibilità e forse non è un caso che abbia sempre avuto radici in un luogo preciso, spesso in un quartiere complicato di una qualche grande città, sia essa New York, Parigi o Berlino. Un po’ come se certe facce, certe situazioni, certe atmosfere non potessero essere lette che a partire da quel luogo preciso, da quelle coordinate di spazio e di tempo. Da quel quartiere. Nel raccontarci queste storie, Steve Panariti è stato molto bravo, facendo in modo che lo spirito di Barriera si consumasse in qualcosa di più generale che avesse a che fare con tutte le possibili Barriere sparse nel mondo.

Ha distillato in fotografia un elemento comune, un tipo umano, vivo ed esuberante, a tratti malinconico, un precipitato estetico universale, ma che poteva nascere solo li, a Barriera di Milano, Torino, Italia.

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