Restaurato il monumento a Matteo Ferchio, teologo e docente di Metafisica all’Università di Padova per trentacinque anni

Restaurato il monumento a Matteo Ferchio, teologo e docente di Metafisica all’Università di Padova per trentacinque anni – Sono circa una decina i frati ricordati con monumenti dentro la basilica del Santo che si sgranano dal Cinquecento in avanti. Uno di essi è il dalmata Matteo Ferchio (1583-1669), teologo pubblico all’Università di Padova per trentacinque anni. Strenuo sostenitore della dottrina di Giovanni Duns Scoto (1265-66/1308), polemista e capace di contrattacchi critici tinti di fiere polemiche, Ferchio fu un pensatore e un docente insieme geniale e versatile, capace di passare dalla teologia alle lettere, alla matematica, alla medicina e all’oratoria e alle lingue antiche.

L’opera commemorativa a lui dedicata, situata nel pilastro tra la Cappella delle Benedizioni, già di Santa Caterina, e la Cappella di Santa Rosa, è tornata alla sua originaria bellezza grazie all’intervento di restauro realizzato da Monica Vial, promosso dalla Veneranda Arca di S. Antonio e finanziato dal Lions Club Padova Antenore.

«Con il restauro del monumento dedicato a padre Matteo Ferchio, il Lions Club Padova Antenore ha voluto fare qualcosa di profondamente rappresentativo per tutta la cittadinanza padovana – racconta Stefania Bado, presidente del Lions Club Padova AntenoreDa sempre, la basilica del Santo è stata una delle più importanti fabbriche di opere d’arte della città. Nell’ambito dell’impegno del Lions Club Padova Antenore per la tutela del patrimonio artistico, l’attenzione per la basilica è quindi una priorità. L’affresco aveva bisogno di un importante intervento di restauro. Occupandomi di libri antichi, conosco il valore e l’urgenza del recupero dei nostri tesori d’arte. La mia proposta ha incontrato il consenso unanime da parte dei soci del Club».

Realizzato nel 1671 ad opera di un pittore del XVII secolo per volontà di padre Felice Rotondi da Monteleone, successore di Ferchio nella docenza universitaria, il monumento si compone di una parte lapidea, una elaborata cartouche ornata con elementi memori dei decori a grottesche che inquadra una scritta su pietra nera.

L’affresco, sopra e sotto la struttura, contiene nella parte alta la raffigurazione di Giovanni Duns Scoto, solis aemulus, in un contesto allegorico tra la raffigurazione di san Giovanni Evangelista e dell’Immacolata. La raffigurazione della Vergine, così declinata, richiama la forza della dottrina scotista che fu profondamente immacolista, e trasmise al mondo francescano tale radicata convinzione che solo nel 1854, con papa Pio IX, divenne dogma di fede.  Nella parte inferiore, due putti reggono un cartiglio con una scritta che ricorda l’insegnamento dei maestri del Santo nella cattedra universitaria di metafisica e teologia.

La struttura della lapide mostra il forzato inserimento in basso di un listello in cui si ricorda colui che volle la costruzione dell’opera, cioè il suo successore, il padre Felice Rotondi da Monteleone, al quale, con tutta probabilità appartiene lo stemma inserito nella cartouche in basso, chiaramente di un frate francescano, con un animale passante.

Il testo sulla lapide in pietra nera ricorda e addita al riguardante l’effigie (oggi scomparsa) di Ferchio, che insegnò per 35 anni e morì nel 1669, e che il suo monumento fu voluto dal successore, appunto Felice Rotondi nel 1671, eletto nel 1695 ministro generale.

I lavori di restauro, realizzati da Monica Vial, hanno interessato il monumento nel suo insieme. Dalla parte affrescata sono state rimosse la patina ossidata e le impurità, consolidate le zone che dimostravano dei distaccamenti, ed eseguito un ritocco ad acquarello. La pulitura e la rimozione delle impurità hanno interessato anche la parte lapidea e la lapide di marmo nero. Nello stemma che presentava due profonde fessurazioni sono stati inoltre inseriti due perni in vetroresina. Sulla lapide di marmo mero è stato eseguito un lavoro di lucidatura, l’applicazione di una cera multicristallina e il ripasso delle lettere con acquerello a tono.

L’attribuzione a Lorenzo Bedogni da Reggio

Nella pochissima letteratura sul monumento si fa il nome di Lorenzo Bedogni da Reggio quale suo autore: un architetto e pittore molto attivo in basilica e a cui Ferchio stesso aveva commissionato un altro affresco, nel chiostro del Noviziato, di inquadramento della porta di accesso dell’ambiente destinato al teologo pubblico (di chi insegnava all’università) intorno alla metà degli anni Quaranta. Sono diversi i lavori che Bedogni fece in basilica, il più importante dei quali è il riassetto del presbiterio, alla metà del secolo, quando il coro, originariamente davanti all’altare maggiore fu spostato dietro allo stesso, nella posizione in cui oggi lo vediamo, e la recinzione lapidea del presbiterio fu ugualmente modificata.  Nel 1652 Giorgio Guglielmo di Hannover lo assunse quale proto per rinnovare molti edifici nei suoi domini e dalla Germania Bedogni tornò in Italia e poco dopo morì intorno al 1670. Il monumento Ferchio non può quindi spettargli e mostra anzi, nella parte superiore, una bella qualità, che l’affresco del chiostro del Noviziato, molto deteriorato, non

ci permette più di scorgere.

La Scuola teologica del Santo

Il restauro del monumento a Matteo Ferchio (1583-1669) assume un significato particolare, e permette di ampliare la riflessione su un aspetto meno appariscente ma certamente non secondario della vita del complesso antoniano. L’attività filosofica e dottrinale di Ferchio, infatti, affonda le proprie radici nella storia della basilica stessa fin dalla sua fondazione.

La basilica di Sant’Antonio, con la sua posizione di primo piano nell’Ordine Francescano, divenne presto sede di studi filosofici e teologici, che il convento fu in grado di mantenere ad alto livello, con una posizione che andò consolidandosi tra gli intellettuali francescani, tanto che nel 1373 il Capitolo Generale di Tolosa elevò la Scuola Teologica del Santo a Studium Generale dell’Ordine Francescano. Questa vivace scuola interna, di filosofia e teologia, ottenne una ulteriore marcatura di eccellenza quando nella neonata facoltà di teologia, istituita a Padova da Urbano V nel 1363, i frati assunsero il ruolo di cattedratici, cioè di docenti di metafisica nella Facoltà delle Arti e questo dalla seconda metà del Quattrocento fin verso la metà del Settecento. Di più, e come segno della fiducia che i frati godevano presso il papa e la Serenissima, dal 1630 al 1772, lo studio interno del convento fu abilitato a concedere la laurea in teologia a dieci alunni ogni tre anni.

La Scuola teologica del Santo, se prese avvio dal pensiero di sant’Antonio, fu sviluppata, arricchita e costantemente ispirata dalla lezione di Giovanni Duns Scoto (1265-66/1308), il primo vero filosofo francescano, che portò al massimo la tensione dialettica della ragione umana, mostrandone la forza e il limite di fronte alle supreme verità metafisiche, e rivelate. Fu dunque questa linea di pensiero a essere costantemente perseguita, situandosi all’altezza della razionalità laica, ma avvertendo insieme la necessità della trascendenza e della disponibilità al dono del soprannaturale. La metafisica insegnata dai docenti del Santo era in via Scoti, (seguendo cioè il pensiero del maestro) e per oltre tre secoli i maestri francescani imposero un serrato confronto critico e teoretico ai colleghi laici dell’Università, contrastando la dottrina averroistica della mortalità dell’anima, che aveva avuto anche un decreto di condanna dal vescovo di Padova Pietro Barozzi nel 1489. La prima metà del Seicento è in grado di sviluppare, nelle università e negli Studia degli Ordini religiosi una speculazione filosofica ampia, viva, innovativa, che si confronta con i primi risultati del pensiero scientifico moderno: così è anche per una rinnovata acutezza nell’interpretazione delle dottrine di Scoto, grazie a pensatori come il francescano Bartolomeo Mastri.

Per informazioni
www.arcadelsanto.org

Articolo precedenteRomantico, primo singolo del progetto artistico dell’artista Dilia, il brano scritto da Francesco Gazze’ e Francesco De Benedittis
Articolo successivo“Blowin’ in the Christmas” al Museo del saxofono di Fiumicino