Lunatici ed epilettici – seconda ed ultima parte

Lunatici ed epilettici – seconda ed ultima parte – Nella cultura medievale, con il termine “epilessia” non si intendeva ciò che la medicina intende oggi, ma essa era considerata la sintesi di una serie elevata dei concause che davano luogo a sintomatologie tra loro assai diverse, quali l’infarto, le nevrosi e, soprattutto la possessione diabolica.

Quest’ultima era stata già suggerita però ben prima di Ildegarda di Bingen e si ritrova nel Commentario al vangelo di Matteo di Origene (185-254 d.C.). L’esegeta, esaminando l’episodio di Gesù che sana un epilettico (Mt. 17, 14-20), è assolutamente convinto che il testo sacro descriva la pura realtà e che pertanto il morbo sia provocato dalla presenza di uno spirito immondo (13,6). L’aggancio con l’opera del Maligno, favorita dalla debolezza spirituale, significa che il pensiero medievale si era andato attestando sulla categoria dell’equivalenza tra morbo e peccato. E ciò in conseguenza della fioritura degli studi biblici e della tradizione rabbinica: difatti, nel Talmud, Pesahim 112b si incontrano i seguenti ammonimenti: “Non restar nudo innanzi a una lampada, perché è stato insegnato che chi lo fa diverrà epilettico”, oppure: “Chi si accoppia davanti a una lampada avrà figli epilettici”. E lo stesso sarebbe accaduto in caso di unioni sessuali contro natura. l’equiparazione tra colpa e malattia transitò nel proto-cristianesimo e la “caduta” divenne sinonimo di “causa del male fisico”: sant’Agostino, nel De nuptiis et concupiscentia parla dell’orgasmo come della “parva epilepsia” e Isidoro di Siviglia definisce il morbo epilettico quale “passio caduca”.

Tale accostamento divenne il tema dominante nei secoli successivi, se si pensa che nel romanzo Aucassin et Nicolette gli attacchi convulsivi sono definiti “mal d’avertin” o “d’esvertin”, termini derivati dalla volgarizzazione del vocabolo latino “vertiginis”; ancora, nel sec. XI, Robertus di Tumbalenia coniò la definizione di “gutta caduca” ovvero di “goccia che provoca la caduta”; e dalla goccia si passò ai corsi d’acqua corrente e, per similitudine, al catarro: e da ciò ad ulteriori malanni, come la gotta e l’epilessia.

Nella prima parte vi ho parlato del trionfo dell’irrazionalismo cristiano e ora non mi resta che confermare il giudizio.

La medicina medievale, schiacciata dalle esigenze teologiche, rappresentò un palese “passo indietro” rispetto agli studi anatomici del mondo classico: si pensi che l’ignoto autore che mise in forma scritta il trattato De morbo sacro attribuito a Ippocrate (secc. V-IV a.C.), fece uso di criteri assai più razionali, partendo dall’esame diretto delle sintomatologie: egli disprezzava i sedicenti guaritori, assimilandoli a maghi e ciarlatani e non facendosi depistare dalla presunta natura divina del “mal caduco” (di cui soffrì lo stesso Giulio Cesare): essa “non sembra più divina delle altre, ma possiede la natura di qualsivoglia altra malattia. Ha origine ereditaria e si appalesa allorché i vasi sanguigni vengono privati di aria a causa del flemma; e l’uomo perde l’uso della favella come dell’intelletto, le sue mani si contraggono e si svuotano di forza”.

Colpisce in particolare che la prassi empirica medievale si staccò sempre più dall’osservazione degli ammalati, preferendo confondersi con intrecci simbolistici sganciati dall’originale significato e traslatisi in assoluta superstizione.

Verso la metà del 1300, Bernard di Gordon suggeriva all’epilettico di dormire poco e non stare a testa in giù e contemporaneamente “d’evitar il suono di grandi campane, il ruggito de’ leoni e tutte l’altre cose spaventevoli”; nel sec. XV, Antonius Guainerius raccomandava di curare l’epilettico con “fegato di rana, spalmandogli di sangue la bocca”; e aggiungeva che all’inizio delle convulsioni: “uccidete subito un cane e date la bile al paziente. E il primo che si accorge del sopravvenir dell’attacco, gli orini sulle scarpe e faccia come per andarle a lavare; indi si faccia bere l’urina all’ammalato e subito la convulsione si risolverà”.

Il breve cenno a simili terapie dimostra come da Origene in poi il morbo epilettico sia stato catturato dalla sfera teologico-morale per poi declinare inesorabilmente nella simbologia magica. L’accostamento tra malattia e peccato ne fece conservare la definizione di “male divino”, nel senso di uno squilibrio fisiologico o spirituale provocato specialmente dalla violazione di un comando celeste o dall’infrazione di un tabù.

Ne derivò il fiorire di colorite leggende e pie superstizioni che tuttavia esulano dalla mia materia di storico: pertanto le rimetto nelle sapienti mani del prof. Mardarce se avrà tempo e voglia di approfondire simili problematiche.

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