Andrea Pietro Ravani è un autore che ha saputo trasformare il quotidiano in letteratura, raccontando con maestria l’inquietudine dell’essere umano e il confine tra realtà e inconscio. La sua raccolta “Racconti dalla casa nel buio” si distingue per la profondità filosofica e l’intensità emotiva dei suoi racconti. In questa intervista approfondiamo il processo creativo, il rapporto con i suoi personaggi e il ruolo della scrittura nella sua vita.
Lei ha descritto mondi pieni di ombre e ambiguità in “Racconti dalla casa nel buio”. Cosa rappresentano il buio e l’incertezza per Andrea Pietro Ravani?
L’esistenza. Il nostro stesso “essere” umani hai i crismi dell’ambiguità, dell’ambivalenza e del dubbio. Potremmo affermare: “Dubito dunque sono”. Questo è il nostro “esserci” nel mondo, ma il dubitare, induce alla ricerca, allo sperimentare, al viaggiare, al trovare e al perdere, al ripartire. Esso non solo è costitutivo del nostro conoscere, delle narrazioni che generiamo dal nostro percepire, sentire e pensare, è l’intenzionalità “radice” della nostra esperienza. L’ambivalenza è un’oscillazione tra due stati nella dimensione del sentimento. Le figure archetipiche sono Amore/Odio e Vita/Morte. L’ambiguità è l’oscurità della conoscenza, è un problema ermeneutico; dunque, rimanda al fenomeno percepito in una sorta di stratificazione semantica, e al soggetto percipiente che non solo attribuisce e nega significati incerti al fenomeno percepito, ma si manifesta equivoco anche nella sua intenzionalità.
I personaggi dei suoi racconti affrontano spesso situazioni di solitudine e disagio. Crede che questi temi abbiano radici personali o universali?
Sono convinto che porre una netta distinzione tra personale e universale sia un errore. L’universale si esprime sempre nell’individuale. Questo sta a significare che gli individui sono la manifestazione singolare e irripetibile di un processo estremamene articolato di fattori: fisici, genetici, relazionali, sociali e culturali. L’universale è questo intreccio infinito. D’altro canto, ciò che percepiamo come fosse separato, diviso dall’ambiente, ovverossia l’individuo e quindi noi stessi, a sua volta è un perenne processo, dunque ciò che denominiamo “individuo”, “questo o quello, io”, non è mai la stessa cosa. Vi è unicamente una narrazione che traccia un’illusoria direzione. Quando pensiamo a noi stessi, al passato, o proiettandoci nel futuro con l’immaginazione o la programmazione comportamentale e mentale, e come se parlassimo di un altro “Io”: “io, ora, non sono quello che vi racconto che ero, e non sono quello che in futuro desidero essere.” Parlando di noi stessi, poniamo inconsapevolmente come natura di quell’“Io” l’impermanenza, e in maniera assolutamente contradittoria, a ogni istante ci percepiamo come un “Io” stabile, definito e in qualche modo, assoluto.
La solitudine e il disagio sono indubbiamente stati esistenziali ricorrenti, soprattutto nella società attuale, così genericamente definita come “occidentale”. Questo dimostra che il successo di una specie vivente, non corrisponde al maggiore benessere degli individui che la compongono. Visto che noi, uomini sapiens, abbiamo sviluppato un discorso morale durante gran parte della nostra storia, dovremmo imperativamente interrogarci sul valore da assegnare a questo stato di cose, approssimativamente definibile come: “disagio esistenziale”, “ingiustizia e disparità sociale ed economica”, “smarrimento in un universo privo di senso”. È opportuno prendere in considerazione la differenza che intercorre tra comportamento e morale, tra consuetudine e valore. Si potrebbe descrivere il successo di specie come la risultante del comportamento di un Superorganismo, in questo caso la specie “sapiens” appartenente al genere “homo”. Ci si deve interrogare se questo comportamento, “vincente e gruppale”, corrisponda al comportamento ideale descritto dalla morale, anch’essa prodotto del Superorganismo in questione; se così non fosse o si adatta la morale alla consuetudine e dunque la prima diverrebbe una sorta di “normatrice” della seconda, ma le norme avrebbero un valore puramente descrittivo, oppure il comportamento va mutato sulla base dei valori enunciati dalla morale e dunque le norme assumerebbero un valore prescrittivo. Ovviamente il discorso andrebbe approfondito in altra sede.
Per concludere oso dire: l’esistenza di ogni individuo vivente è espressione singolare della Natura, dunque dell’universale espresso dall’aggettivo “vivente”. Solitudine e disagio trovano origine nel conflitto tra percezione e intuizione della profonda natura della realtà. Ci percepiamo come un soggetto; quindi, un individuo dotato di coscienza di sé e del mondo, capace di atti volontari e fornito di un certo potere d’azione su di sé e nel mondo; in un qualche modo ci concepiamo come un “assoluto”. L’esperienza quotidiana, ci suggerisce qualcosa di sostanzialmente differente. Tutto ciò che viene comunemente nominato con termini quali: “destino, fato, fortuna, caso, volere divino, ecc.” allude, in maniera vaga e confusa, all’esperienza dell’universale così come l’ho sommariamente definito in precedenza: intreccio infinito di fattori di varia natura che porta all’emergere di manifestazioni uniche e irripetibili quanto effimere e precarie, definite genericamente con il termine di “individuo” (c.f.: (lat.) indivĭduum; che non (in-) è divisibile (divĭduum)).
La sua carriera è segnata da una grande varietà di esperienze. Quando ha deciso di dedicarsi seriamente alla scrittura e come è cambiato il suo approccio nel tempo?
Da bambino mi piaceva molto fantasticare, se fosse stato per me, avrei passato ore a scrutare mondi fantastici. Vi era un sogno a occhi aperti ricorrente: mi vedevo in una stanza, seduto a una scrivania intento a scrivere, circondato da pile e pile di manoscritti. Mi trovavo a mio agio in quell’universo. Ho sempre avuto il sentimento che la vita dell’artista o dell’intellettuale, fosse la vita che valeva la pena di essere vissuta. Da adolescente inizia a scrivere poesie e da allora non ho mai smesso. La musica è sempre stata un’ambizione della mia anima, scrissi diverse canzoni e le interpretai accompagnato da musicisti verso i quali provo gratitudine.
Alla narrativa ho sempre pensato, dopo disordinati ed effimeri tentativi già da bambino, poco dopo i vent’anni mi sono messo al lavoro. È stato un lungo processo, i racconti pubblicati, in alcuni casi sono stati elaboranti nel corso di anni e decenni. Non è mai stato un lavoro quotidiano, ma una costanza si è vieppiù sviluppata. Non saprei dire quando e perché decisi che era ora di pubblicare, ma da quell’istante, l’impegno è diventato assillante, ogni giorno, il primo e ultimo pensiero della giornata era rivolto ai racconti. Nel mio stile di scrittura vi è una parte rilevante che oserei definire “filosofica”, questo comporta un grosso lavoro di lettura e studio. “L’amore per la Sapienza” non è mai esaurito, è anche un tornare e ritornare su temi già in precedenza frequentati e approfonditi. Nel processo della scrittura, come in quello della musica; i quali ambedue comportano studio, ricerca, pratica, riflessione; sono costante e ostinato ma ben poco organizzato e sistematico.
Lei scrive racconti brevi, un genere che richiede una sintesi estrema. Quali sono le maggiori sfide e soddisfazioni che questo formato le offre?
La densità della poesia! Sarebbe una conquista eccezionale riuscire a dare alla narrativa la ricchezza del verso poetico. I grandi poeti si contraddistinguono per quella che approssimativamente definirei un grande capacità di sintesi: in un verso il riuscire a esprimere una teoria sulla vita, una verità, un sublime mistero. Pur ammettendo una chiara differenza di linguaggio tra poesia e narrativa; come un campo d’analisi non del tutto analogo, la narrativa si occupa del dicibile, mentre la poesia dovrebbe presentire l’indicibile; ritengo non siano universi separati poiché la loro fonte d’ispirazione è unica: l’esistenza, esprimibile per mezzo di esperienze e dunque metodi differenti.
Per causa di questa comune fonte, nel racconto, la sintesi della poesia potrebbe essere un’aspirazione. La sfida consisterebbe nel rendere il pensiero; il domandare; l’analizzare; l’ipotizzare; esplicito o per lo meno, manifesto, pur mantenendo la stratificazione e la dinamicità semantica della poesia. Il linguaggio della poesia è denso, ogni termine e ogni suono dovrebbero essere significativi; mentre il linguaggio della narrativa è maggiormente fluido, la storia segue il corso formato dalla narrazione, come il fiume scorre tra gli argini e pur talvolta e in tal punti, tracima.
Molti dei suoi racconti sembrano sospesi tra il reale e il surreale. Come trova l’equilibrio tra questi due elementi nella sua scrittura?
L’etimologia dei termini è uno strumento per pensare. Le parole hanno una storia, appartengono a delle famiglie e vi sono delle relazioni tra esse, talvolta sorprendenti. La parola svela e cela. Lo studio dell’etimologia scopre dimensioni, paesaggi semantici, inaspettati. Quando scrivo oso spesso lo sconfinamento tra i vari livelli di significato. La situazione apparentemente più banale, usuale e comune, può essere simbolo di dinamiche profonde e universali. È un continuo rimando di significati, un alludere a universi di senso, ulteriori. Questo processo si manifesta sovente con un mutamento di registro stilistico, oppure nella scelta di termini non tanto per il loro significato corrente, bensì per la loro radice etimologica.
Qual è il ruolo del lettore nei suoi racconti? Cerca di guidarlo verso un significato preciso o lascia che ogni interpretazione sia valida?
Di per sé una volta che l’opera è pubblicata non ho più nessun potere su di essa e quindi nemmeno sulle interpretazioni. È come costruire una barchetta di carta, metterla nell’acqua e lasciarla navigare, seguirla con lo sguardo finché puoi, con una certa nostalgia nel cuore. La nostalgia del lavoro di scrivere e del rapimento dell’entusiasmo della ricerca di senso e di stile. Per cui, ricominci subito con qualche cosa d’altro. Ho difficoltà a rileggere ciò che ho pubblicato. Ciò che è compiuto è passato, scopro il presente e vaneggio il futuro. Senza scordarmi che il punto di vista dal quale osservo il mondo, non è altro che il passato.
Come concilia le sue altre passioni – la musica, la fotografia, l’educazione – con la scrittura? Crede che queste discipline si influenzino a vicenda?
Il Bello, il Bene, la Giustizia sono la mia “trinità assiologica”. Con questo non intendo suggerire che io mi ritenga una persona “buona, bella e giusta”, al contrario; ciò che si desidera è ciò che non si possiede. Inoltre, due ambiti espressivi mi hanno sempre attratto: scrittura e musica, e in fine; “…una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta…” (Platone: Apologia di Socrate; 37 A). Non vi è soluzione di continuità tra lo studio, la lettura, l’ascolto, l’osservazione e la meditazione. Se vuoi esprimere l’esistenza, cercare di comprendere l’esperienza, aneli a conoscere la natura della realtà, non vi può essere una separazione tra un ambito e l’altro. Tutto verte alla perfezione estetica e morale, tutto porta a misurare la distanza infinita che ci separa da essa.
Come autore, come vive il processo di revisione dei suoi racconti? È un momento creativo o puramente tecnico?
È parte del processo generativo. Prediligo questo termine “generativo” poiché si tratta di portare alla luce una comprensione dei fenomeni che di questi abbia la natura composita, complessa e relazionale. Nulla nasce dal nulla. L’autore è una sorta di demiurgo. L’esperienza, la memoria e la conoscenza, portano elementi da ricomporre in una narrazione. Per quanto mi riguarda, scrivere è un continuo revisionare, è un processo faticoso ma che si impone come necessario. Non scrivo mai un racconto dall’inizio alla fine per poi rileggerlo e correggerlo. A dire il vero, quando inizio non ho nessuna idea di come andrà a finire. È, in un qualche modo, il racconto stesso a decretare la conclusione.
Che cosa significa per Andrea Pietro Ravani essere uno scrittore oggi, in un mondo in cui il tempo per la lettura sembra sempre più ridotto?
Non è tanto una questione di tempo ma di valori. Quale è il valore, morale, estetico e gnoseologico che diamo alla letteratura e di conseguenza alla lettura?
È tipica, della società capitalista, la capacità di assorbire qualsiasi pratica e qualsiasi tendenza artistica nel sistema economico. Qualsiasi opera, letteraria o d’arte, può essere ridotta a un prodotto di consumo come qualsiasi tendenza di pensiero può essere trasformata in una moda. La società capitalista contemporanea non necessita di eliminare fisicamente gli “avversari”, siano essi persone o idee, li trasforma in profitto. Ci percepiamo come soggetti, di fatto pensiamo e agiamo come “massa”. In maniera del tutto inconsapevole aderiamo ai valori della cultura di appartenenza. Nella nostra attuale cultura “occidentale”, il valore supremo è la funzionalità. Un’idea, un’invenzione, una scoperta, deve “servire a qualcosa” per essere considerata importante. Abbiamo una concezione molto utilitaristica della conoscenza. Essa deve essere utile a farci “stare bene”, e il nostro “stare bene” è definito dalla società nella quale viviamo. Il nostro “stare bene” deve essere funzionale alla società, la persona che sta bene è il cittadino inserito e produttivo. Le cose e le attività che “valgono” sono quelle che fanno “funzionare questo sistema”.
Dobbiamo inoltre domandarci: il tempo che vorremmo dedicare alla lettura per cosa lo utilizziamo? Si tratta esattamente di una questione di valori; se il valore che diamo alla conoscenza (quella fine a se stessa!) è inferiore a quello che attribuiamo a tutta una serie di attività, è evidente che avremmo poco tempo da dedicare alla lettura. Quando prendiamo coscienza di queste dinamiche spesso ci nascondiamo dietro a scusanti generiche e luoghi comuni: “Ormai le cose sono così come posso cambiarle? Se solo potessi…, il mondo è in mano ai furbi…” e dunque non troviamo il tempo per leggere…se non leggiamo è perché non si legge, se non si legge è perché non leggiamo.
In quanto scrittore, scrivo comunque e in ogni caso, perché scrivere è una dimensione del mio “essere” alla quale non voglio e non posso rinunciare. I temi e lo stile dipendono integralmente dalla mia sensibilità e dalle mie ossessioni. L’atto di pubblicare suggerisce surrettiziamente, una certa propensione al dialogo e la curiosità di sapere come un perfetto sconosciuto possa valutare i miei scritti, per cui il giudizio sarebbe puramente letterario e tutt’al più filosofico.
Non credo che l’intellettuale abbia dei doveri se non quello della veracità. L’atto di scrivere dovrebbe essere sempre un atto di accusa contro la falsità, l’ingiustizia, e la bruttezza che osserviamo trionfanti nel mondo. La scrittura, quella vera, onesta e sofferta, non può stare dalla parte dei “padroni”, per questo motivo i ricercatori di verità non sono mai, se non per un puro caso o malinteso, sostenuti dal “sistema” politico dominante.