Il peso lieve e profondo dell’esistere – “21 grammi” di Giuseppe Cucè

Giuseppe Cucè firma un disco profondo, che riflette sul mistero dell’esistenza attraverso nove tracce che oscillano tra poesia, memoria e introspezione. “È tutto così vero” apre con sensualità cruda, raccontando un primo incontro che è insieme rivelazione e disordine emotivo. “Ventuno” è il manifesto filosofico del disco: 21 grammi come unità dell’anima, ma anche misura dell’autenticità. Brani come “Dimmi cosa vuoi” e “Fragile equilibrio” scavano nei legami, tra rinascita e dolore, mentre “La mia dea” commuove con il suo omaggio alla figura materna. Il lato B è un tuffo in una dimensione più ombrosa e disillusa, con “Cuore d’inverno” e “Tutto quello che vuoi” che riflettono sul disincanto e sull’identità. “Una notte infinita” e “Di estate non si muore” chiudono il disco con una nota di attesa e critica sociale. Un’opera essenziale e sincera, che invita a fermarsi e respirare.

Come hai definito la direzione sonora del disco? Hai scelto suoni essenziali per un motivo specifico?

La direzione sonora è nata da un’urgenza: spogliare, non riempire. Ho voluto che ogni suono respirasse, che ci fosse silenzio dove serviva, fragilità dove il cuore batteva più forte. I suoni essenziali non sono una scelta estetica, ma un atto di sincerità. 21 grammi non cerca di impressionare, ma di toccare. E lo fa con il minimo necessario, come una verità sussurrata all’orecchio.

C’è una coerenza stilistica tra i brani, pur nelle loro sfumature: come hai lavorato sugli arrangiamenti?

Ogni brano è stato trattato come un mondo a sé, ma con la stessa luce addosso. Ho lavorato molto sull’ascolto interno: chiedermi cosa davvero serviva a ogni pezzo e cosa invece andava tolto. Con Riccardo Samperi, che ha curato la produzione, abbiamo costruito arrangiamenti che fossero coerenti con il respiro del disco: intimi, profondi, capaci di sostenere la parola senza sovrastarla. Come una carezza che non distrae, ma accompagna.

“Cuore d’inverno” ha una struttura molto cinematografica: come hai costruito il mood?

Il mood è nato da un’immagine precisa: la pioggia sul volto, il silenzio che bussa dentro. Il video è stato girato sotto una vera pioggia, senza filtri, per restituire quella sensazione di nudità emotiva. Intorno a me, nel buio, sospese nell’aria, ci sono delle vecchie TV: ognuna trasmette frammenti di relazioni – padre e figlio, amanti, coppie uomo-donna e uomo-uomo.

È un mosaico di legami umani, a volte feriti, a volte teneri, ma tutti vivi.

Musicalmente ho cercato una struttura che seguisse questa stessa alternanza: intima, malinconica, ma con slanci di luce. Come se ogni nota fosse un battito del cuore che resiste, anche d’inverno.

Quanto ha influito il tuo background personale sulla scelta delle timbriche e delle atmosfere?

In tutto. Porto con me la Sicilia, i suoi contrasti, il suo silenzio pieno di voci. Porto il teatro, la strada, l’inquietudine e la ricerca. Ogni timbrica è una traccia della mia storia. Ho cercato atmosfere che non fossero semplicemente “belle”, ma vere. Che parlassero la lingua della mia esperienza: imperfetta, viscerale, a volte ruvida, ma sempre autentica.

Hai lasciato spazio all’improvvisazione in studio oppure ogni brano era già definito in fase di pre-produzione?

Alcuni brani erano già molto chiari in fase di scrittura, altri sono nati e cresciuti in studio, con l’istinto come bussola. Ho lasciato che certi suoni arrivassero da soli, che certi respiri restassero nei take. L’improvvisazione è stata parte del processo, ma sempre dentro un perimetro emotivo preciso. L’obiettivo non era “sperimentare” in senso tecnico, ma essere fedeli al sentire. E per farlo, a volte, bisogna anche saper perdere il controllo.

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