Divorzio alla romana

Divorzio alla romana – Tra gli innumerevoli episodi che la storia nostrana collega al difficile rapporto tra coniugi, ve ne voglio segnalare uno che affonda le radici nella Roma del sec. XVII, allorché le donne, grazie anche al contributo della politica religiosa della Curia pontificia, viveva in una condizione di assoluta soggezione al maschio. Cosa accadeva allorché una moglie, stanca di subire angherie e portare sulla fronte cimeli virili di conquista, decideva di interrompere l’esperienza matrimoniale? Risposta facile: presentava ricorso al Tribunale. Controrisposta: e veniva massacrata di percosse nonché esposta al pubblico ludibrio quale donna di malaffare. E allora, alla disgraziata cosa restava se non fuggire di casa? Peggio, perché si sarebbe trovata nella situazione di morire di stenti. L’unica alternativa era disfarsi dell’odiato coniuge in maniera definitiva.

Nel 1651, viveva nel quartiere trasteverino – dove oggi sorge Ponte Mazzini – una palermitana di nome Giulia Tofana. Costei, trasferitasi nell’Urbe preceduta dalla nomea di fattucchiera, aveva messo su una florida azienda per risolvere le controversie coniugali in modo rapido e indolore. Giulia Tofana però era ben lontana da rispecchiare l’immagine della strega orripilante e scarmigliata, al contrario rappresentava l’icona della cortigiana ricca e raffinata. Così la descrive un colorito ritratto dell’epoca: « Venere plebea scolpita in marmo pario, la giovane Tofana non si curò da quel momento in poi che della sua pagana bellezza ammantata di civetteria. Rimirossi nella grande specchiera e chiese all’amica se la trovasse bella. Indi tardò ancora qualche istante di fronte alla sua immagine riflessa per acconciarsi all’uopo la veste di taffettà aperta sul davanti, dalla quale si intraveddeva una sottana ben rigonfia che le metteva in evidenza i fianchi pieni e larghi. legò i lunghi capelli biondi in una rete argentata e ravvivò le sopraciglia scure con l’inchiostro di china. Poi s’aggindò un monile di corallo d’intorno al collo ».

Era « figlia d’arte », giacché discendente della cortigiana spagnola Theofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633, per veneficio del marito. Nel 1640, Giulia, sfruttando la sua avvenenza e la frequentazione di giovani e inavveduti farmacisti, aveva elaborato una pozione conosciuta con diverse denominazioni: « manna di San Nicola », « acqua di Napoli », « acquetta » o « poison à la mode » e che vendeva, almeno a dar credito al cronisti del tempo, « pro caritate ». Non che agisse gratuitamente, neanche a sospettarlo: la sua era una sorta di « missione », un intervento necessario a tutela del ceto femmineo martoriato dall’imperante maschilismo. Il risultato era garantito e anche l’impunità, giacché si trattava di un veleno privo di riconoscibilità e più vicino all’acqua che a un unguento. Secondo i resoconti delle forze dell’ordine, l’« acqua toffana » si preparava mettendo a bollire in mezzo litro di acqua « un par d’once di arsenico tritato, un pugno di piombo e una foglietta »: un po’ più tecnicamente anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio. Mediante la bollitura in un recipiente sigillato, l’anidride arseniosa, creando in acqua un ambiente acido, favoriva la parziale dissoluzione sia della limatura di piombo sotto forma di ossido in superficie, sia dell’antimonio.

Una volta debitamente filtrata, la tossica mistura ottenuta andava mischiata al cibo o al vino, causando forti conati di vomito, temperatura elevata e, infine, il decesso dopo un paio di settimane. Neppure i cerusici era in grado di scoprire le cause della morte e si racconta che, in ossequio alla fede cristiana, « li homini havevano tempo di accostarsi a li sacrementi ». Si trattava di una fiorente industria familiare, nella quale l’intraprendente Giulia introdusse gradualmente la figlia Girolama, soprannominata « la strega della Longara », superiore alla mamma in capacità e discrezione. Il prodotto veniva talvolta smerciato come cosmetico, in altri casi quale oggetto devozionale verso  San Nicola e sovente imbottigliato in fialette, con un’etichetta che riproduceva le fatte del santo. La confezione prevedeva un foglio contenente le istruzioni per l’uso. Dopo una serie di ben 600 successi, il caso volle che alla segreteria dell’azienda si presentasse una cliente nuova, coniugata con un funzionario di polizia. L’infelice sposa, concordati con Giulia i reciproci impegni, ebbe un moto di pentimento e rivelò il torbido progetto al proprio confessore. Il sacerdote la assolse a condizione che denunciasse il reato all’autorità. Recatasi a esporre la situazione, la donna ottenne l’impunità purché collaborasse a incastrare l’avvelenatrice. Ella accettò e si recò dalla Tofana per concludere l’accordo: ma nell’istante della consegna della pozione, gli sbirri irruppero nel laboratorio e arrestarono l’imprenditrice, la figlia e le collaboratrici. Al termine del veloce processo a Giulia, Girolama e a una cinquantina di aiutanti, la madre, la figlia e quattro colleghe, il 5 luglio 1659, vennero impiccate in Campo de’ Fiori, insieme ad alcune mogli che avevano fatto uso della pozione venefica. Le altre accusate furono tradotte nelle pontificie carceri sotterranee di Palazzo Pucci a Porta Cavalleggeri, dove rimasero fino alla morte. I cadaveri delle giustiziate non vennero sepolte in terra consacrata.

Sarà stato un caso, ma non vi pare che secoli fa le donne erano più scaltre nel difendersi? Oggi le cronache giudiziarie che riferiscono brutalità e omicidi vedono sempre il sesso femminile operare quale vittima. Il maschio è stato sempre un essere violento e nel corso del tempo non è riuscito a migliorarsi: tuttavia, è rimasto sostanzialmente a un livello di scarsa intelligenza. E la donna, cresciuta nel ruolo sociale e nella partecipazione protagonistica della vita politica e imprenditoriale, che fine ha fatto fare alla sua intelligenza oggettivamente superiore quando si tratta di porla a servizio della personale incolumità?

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