Rufoism, Spaventapasseri in giro

Rufoism, Spaventapasseri in giro – Galleria OLTREDIMORE presenta, dal 27 al 30 gennaio, nella sezione SOLO SHOW di ARTE FIERA 2017 un recente ciclo di lavori di RUFOISM su carta e tele di grandi dimensioni, dedicato all’iconografia degli spaventapasseri.

Dal testo critico di Chiara Gatti:

Io non possiedo il cervello: solo paglia.

Come fai a parlare se non hai il cervello?

Non lo so. Ma molta gente senza cervello ne fa tante di chiacchiere.

 

Dici “spaventapasseri” e pensi subito a Il mago di Oz; a quel campo di pannocchie mature da cui l’uomo di paglia spiegava gentilmente a Dorothy quale fosse la strada migliore da imboccare nella brughiera.

L’immaginario comune ricollega sempre questa figura in bilico fra fiaba e folclore alla letteratura che l’ha resa spesso protagonista. Viene in mente anche Testa di rapa, lo spaventapasseri assennato nel capolavoro di Miyazaki, Il Castello Errante di Howl. Dal punto di vista antropologico, ci sarebbero decine di spunti da approfondire sul suo ruolo di mediatore nel rapporto fra i contadini e la terra, le tradizioni rurali, i mestieri e le stagioni. Una storia arcaica ma universale.

Non stupisce che Rufoism (all’anagrafe Marco Perroni), da anni concentrato sulla traduzione figurale dei temi eterni della solitudine, della ricerca d’identità, della fuga, abbia scelto come nuovo eroe della sua elegia agreste il caro, vecchio fantoccio di fieno, piegando il suo messaggio in direzione esistenziale e dipanando, fra le macchie di grano dorato, una storia di ordinario abbandono e, insieme, di grottesca allegria. A metà strada fra la sagra e la danza macabra, fra la festa campestre e un sabba medievale, salgono dalla terra, emergono come sterpi animati, creature di corda, stracci e stoppia. Sono ominidi consumati, feticci di pezza, umanoidi bislacchi, embrioni disossati, masse di materia argillosa, golem antropomorfi, come Cthulhu “L’orrore d’argilla” di Lovecraft, eredi di un culto primitivo venato di silenziosa disperazione.

Fanno sorridere e, allo stesso tempo, commuovono, strizzati come sono nella matassa di segni neri e aguzzi, fili spinati di china, tempera e pennarello, che Rufoism arrotola come cappi intorno al collo. A spasso sotto il sole, sudano di umori terrigni e respirano zanzare. L’odore della paglia che fermenta si mescola a quello di una pozza, un fiume, una striscia di mare che ristagna poco lontano. I corvi gracchiano e si prendono gioco di quella costretta immobilità.

Povero spaventapasseri! celebrato nell’estetica della natura come il custode delle fragole e delle zucche, idolo fiabesco nelle tradizioni contadine e nel mondo popolare, ora piange lacrime di malto e diventa per Rufoism la metafora di ogni coercizione.

Merito però della sua pittura dal gesto sorgivo e i colori lisergici, se questo panorama di (dis)umana siccità non sconfina nel sentimento del tragico, ma esorcizza ansie e paure con caustica ironia, diluendo nello humour noir una critica feroce ai mali della società moderna.

La scelta del campo di grano come scenario allegorico di una esistenza ai margini non è molto distante dai panorami che Rufoism ha attraversato in passato; le sue piscine nere, le spiagge, le piazze di Bologna. C’è lo stessa atmosfera di ambigua sospensione, di attesa che soffoca le coscienze. Stuoli di diseredati si riversano allora in un oceano di frumento. “I pessimi” li chiama lui: derelitti dagli occhi cuciti come bottoni, appesi a testa in giù (citazione dotta di Baselitz, altro signore degli equilibri instabili), ebbri di una vita che sa di tappo, accennano un passo di danza sull’unico palo che li regge come una gamba di legno. Tarmata. Danzano al ritmo delle catenelle che ciondolano dalla cinta, al fischio del vento che fa tintinnare le lattine o le bottiglie vuote appese alle loro braccia aperte.

Ninnoli, cantilene nel tramonto, diramano il suono di una pace che non c’è, prima di affondare nel silenzio della sera, nell’umidità della notte, quando nei sogni la libertà occhieggia dalla linea dell’orizzonte, dall’argine dei fossi, oltre i filari dei gelsi, nella pianura che accoglie ma non consola.

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