La tradizione del buon gusto dei romani – terza parte

La tradizione del buon gusto dei romani – terza parte – Giovenale nella quarta satira ci ricorda che Crispino pagò 6.000 sesterzi per una triglia da sei libbre, che ebbe la sfrontatezza di consumare da solo. Ricordiamo solo brevemente i grandi vivai nei quali era  praticata l’itticoltura a scopo privato o commerciale; Plinio ci ricorda, ad esempio, che il mercante Irrio vendette a Cesare 6.000 murene provenienti dai suoi vivai.

I romani apprezzavano anche polpi, seppie, languste (aragoste), gamberi, astici e scampi. Ateneo racconta che Apicio allestì una nave che mandò il Libia per prendere degli scampi particolarmente grandi.

Macrobio ci ricorda anche la passione per i frutti di mare: datteri, ghiande, ricci, mitili, conchiglie ed ostriche. Nel 108 a.C., Lucio Sergio Orata (in nomen omen), creò nella sua villa di Baia il primo allevamento di ostriche di cui si abbia notizia.

Conservare il pesce fresco era certamente difficile, però gli antichi avevano iniziato a metterlo sotto sale, in barili, come si fa ancora oggi con le alici, e già Gerone di Siracusa era riuscito a spedirne in Egitto 10.000 giare. La pratica dovette essere molto diffusa se si considera che Diocleziano, nel suo famoso editto, stabilì che il pesce conservato dovesse avere un prezzo quattro volte più basso di quello riservato al pesce pregiato fresco.

Il pesce conservato era consumato dopo essere stato accuratamente lavato, come si fa oggi con il baccalà, presentandolo a tavola in pezzi conditi con olio, aceto ed una specie di mostarda.

Anche il pesce conservato male, pure se in pessime condizioni, veniva consumato, mangiandolo con il cucchiaio in una specie di pappa, antesignana della zuppa di pesce. Questo prodotto veniva chiamato  “allec” ed era consumato dai meno abbienti e, dovette essere molto diffuso se, come si pensa, fu “padre“ del famoso garum.

I romani mangiavano il pesce, spesso tagliato già in pezzi o pezzettini, anche perché in tavola gli utensili più diffusi erano la coclea, una sorta di cucchiaio con un bordo tagliente, lo spillo, simile ad una bacchetta cinese e vari  tipi di coltello. Era sconosciuta la forchetta che la tradizione vuole introdotta nelle nostre abitudini, solo al tempo di Caterina de Medici, per altri, invece, portata a Venezia da Bisanzio, ov’era già usata.

Per far conoscere meglio il gusto dei buongustai romani, riporto una ricetta del grande gastronomo Apicio: “prendete le orate e, dopo averle pulite, grigliatele leggermente poi, dividete la carne in pezzi. Prendete delle ostriche sgusciate, conditele con abbondante garum  (meglio se fatto con sugo di pesci di Spagna e aceto di Metimna), pepe macinato e vino poi mettetele in casseruola con un po’ d’olio (vergine di Venafro) e fatele bollire. Ingrassate con olio un tegame, versateci la polpa dei pesci e la salsa ottenuta con le ostriche e fate nuovamente bollire. Al momento dell’ebollizione, rompete undici uova sulle ostriche e fatele rapprendere, insaporite poi con pepe bianco e ligustico e servitele”.

Senza responsabilità né garanzia!  Le note geografiche di vino, olio e aceto (IGP si direbbe oggi), sono state da me inserite, a dimostrazione della raffinatezza dei gusti, dal banchetto di Nasidieno descritto da Orazio.

Con maggiore semplicità, Apicio consigliava inoltre di consumare lo stoccafisso bollito con funghi e fave; ho provato questa ricetta mettendo in casseruola lo stoccafisso con porcini, fave ed olive nere (Catullo avrebbe usato quelle di Sarsina che prediligeva), olio di oliva, sale, aglio e pepe bianco, trovandola gustosa ed attuale.

Tralasciando le abitudini portate dagli  “ invasori “ – dai Galli di Brenno in poi, chi più ne ha più ne metta – con un volo bimillenario giungiamo al 1677, anno in cui, per decreto papale, nascono gli statuti dell’Università dei Norcini e dei Casciani, ai quali fu conferito anche il privilegio della vendita dei tartufi (di cui fin dall’antichità classica i romani erano ghiotti, arrivando ad importare dal Medio Oriente anche una varietà definita “tartufo giallo”) e del pesce. Per il privilegio concesso, però i Norcini ed i Casciani  furono obbligati a versare, ogni anno, 15 scudi alla Cappella di Sant’ Andrea, nella Chiesa di Sant’ Angelo in Pescheria, appartenente alla Università e Compagnia dei Pescatori, che nel 15° secolo, fu la prima ad essere costituita, com’ era logico attendersi nella città in cui il suo primo cittadino era anche  “ pescatore di anime “.

Il commercio del pesce era ormai molto sviluppato e Roma, per la sua particolare posizione, aveva l’eccezionale possibilità di poter disporre di pesci di mare, di lago e di fiume in buone condizioni di freschezza.

Il mercato del pesce, anticamente situato al Portico d’Ottavia, era straordinariamente assortito di pesci di ogni dimensione e varietà tanto da costituire un’attrazione a parte, ricordata nei diari di celebri viaggiatori i quali trovavano nel variopinto e suggestivo mercato motivo di meraviglia e di divertito stupore nei colori e nei suoni delle persone che lo animavano.

La prossima puntata tra qualche giorno

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